La sinistra ha paura di dare ragione a Scalfari
Anch’io sono rimasto sbalordito, incredulo, senza parole. Ma non perché Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, abbia osato dichiarare che Berlusconi è meno peggio di Di Maio, bensì per le reazioni che quella dichiarazione ha suscitato nel mondo che intorno a Repubblica è cresciuto e ha prosperato.
Perché mi soffermo su questa vicenda? Se una cosa ho imparato nei miei anni giovanili è che la stima e l’ammirazione per una persona si riconoscono da questo semplice gesto: quando il tuo maestro dice qualcosa che ti sembra del tutto sbagliato, anziché chiederti se è impazzito lui, ti chiedi, prima, se non sei tu che stai sbagliando qualcosa. Anche Paolo Mieli, qualche giorno fa, ha detto qualcosa di simile proprio a proposito di Scalfari: se una cosa del genere fosse successa al Corriere, come direttore non avrei chiesto a Scalfari un intervento di rettifica, ma piuttosto di spiegare, approfondire, sviluppare un pensiero.
L’affare Scalfari ci insegna una cosa, su cui forse Scalfari stesso dovrebbe riflettere. Ai miei occhi, il modo in cui il mondo di Repubblica sta trattando il fondatore la dice lunga su quel mondo stesso. Di cui non mi colpisce tanto la cattiveria e l’animosità (fortunatamente non di tutti), ma la faziosità, l’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, l’ostinata convinzione che, su certe questioni, una sola sia la posizione giusta: la nostra posizione. Perché noi siamo la parte migliore del Paese.
Quella, soprattutto, che non ha dubbi su che cosa sia il male assoluto: archiviato il nazismo, archiviato il fascismo, resta lui, solo lui, il cattivo per antonomasia, Silvio Berlusconi. Il mio modesto parere è che, se la sinistra è così spiazzata dal populismo, è anche perché il pensiero unico di cui è (volutamente) prigioniera le impedisce ogni vero accesso al diverso da sé, di cui le istanze populiste sono la massima espressione.
Ma c’è anche un altro aspetto che l’affare Scalfari solleva. L’ha visto molto lucidamente Marco Travaglio che, a differenza di altri, si è ben guardato dall’attribuire l’uscita di Scalfari alla vanità, all’età avanzata, o a qualche perdita delle capacità intellettuali. Per Travaglio, Eugenio Scalfari «ci sta perfettamente con la testa», semplicemente esprime una posizione che pur essendo «incomprensibile» (per Travaglio stesso), è comprensibilissima per altri.
E allora vediamola, questa posizione. C’è una parte del popolo di sinistra che ritiene che le grandi battaglie per cambiare il Paese siano quelle sulla corruzione, il funzionamento della giustizia penale, il conflitto di interesse, i diritti delle minoranze, l’accoglienza dei migranti, le coppie di fatto, la bioetica, l’ambiente, eccetera. Tutte cose che riguardano soprattutto le regole, ma spostano poche risorse. C’è un’altra parte del popolo di sinistra (probabilmente minoritaria) che crede che il futuro si giochi su temi meno sovrastrutturali, più legati all’economia e meno ai diritti: debito pubblico, occupazione, tasse, welfare, giustizia civile, competitività.
E anche a una persona come Scalfari, che sicuramente detesta Berlusconi ma ha una formazione culturale da economista, può venire in mente una cosa che alcuni dicono da anni: e cioè che, se parliamo di governo dell’economia, non è facile dire se, in questi 20 anni, siano stati più dannosi (o meno inefficaci) i governi di destra o quelli di sinistra. Ecco che, allora, alcune frasi di Scalfari si capiscono. Quando, ad esempio osserva: la politica è una cosa diversa dalla morale. La politica non è un fatto morale, è un fatto di governabilità, questa è la politica.
E tuttavia il vero discrimine non è questo. Il discrimine è che, se invece la si pensa come la sinistra che si occupa soprattutto del funzionamento dell’economia, e in più si ritiene che, finché non si riforma, il nostro Paese sia altamente vulnerabile agli shock esterni, allora un’affermazione come «Di Maio è più pericoloso di Berlusconi» diventa perfettamente comprensibile, e tutt’altro che eretica. Quel che stupisce non è che Scalfari abbia potuto esprimere questo genere di preoccupazioni, ma è il corto circuito mentale dei suoi critici di cui sono prigionieri: se dico che A (Di Maio) è peggio di B (Berlusconi), allora implicitamente sto legittimando B.
C’è un’ultima ragione per cui l’affare Scalfari merita di non essere archiviato. Il tema è questo: sul dopo voto la sinistra è divisa, e lo è precisamente sul punto che Scalfari ha sollevato. C’è una parte della sinistra, quella che fa capo a Renzi e al Pd, che pensa che, in assenza di una maggioranza autosufficiente, si potrebbe varare un governo Pd-Forza Italia. Ma c’è un’altra parte della sinistra, molto forte nel mondo di Repubblica, ma anche (secondo i sondaggi) nell’elettorato progressista, che mal sopporta Renzi e simpatizza con i Cinque Stelle, visti come una sorta di sinistra più idealista e pura di quella, tutta modernizzazione e riforme, impersonata da Renzi e dai suoi. Ebbene, questo pezzo della sinistra non lo dice apertamente, ma vagheggia un qualche tipo di «sponda» fra la sinistra stessa e i Cinque Stelle, sul modello dell’operazione invano tentata da Bersani nel 2013. Questa prospettiva piace ovviamente alla sinistra Purosangue, che rappresenta una sorta di ponte ideale fra sinistra riformista e Cinque Stelle ma, per quel che capisco, non dispiace nemmeno a una parte del mondo di Repubblica, che dopo 23 anni di anti-berlusconismo «senza se e senza ma», è ancora lì, fermo alla demonizzazione del Cavaliere.
Ecco, temo che sia stato questo il vero peccato del fondatore di Repubblica. Se la reazione del suo mondo è stata così virulenta forse è anche perché, dicendo quel che ha detto, di fatto ha tolto legittimità al flirt che, sia pure obliquamente, una parte della sinistra stava (e sta) imbastendo con i Cinque Stelle (dalla legge sul fine vita alle dichiarazioni sull’articolo 18). Un flirt che, a quel che risulta dai sondaggi, seduce una parte non piccola dell’elettorato progressista, e fino a ieri trovava in Repubblica il luogo adatto per fare capolino.
Con la sua paradossale dichiarazione di preferenza per Berlusconi, Scalfari non ha fatto altro che scoprire il gioco: un contributo alla chiarezza, più che una perdita del senno.
IL GIORNALE