Il plebiscito che cacciò Renzi Inutile l’aiutino di Obama
Un’interferenza sul referendum del 2016 in effetti c’era stata, ma da parte degli Usa. Di più, dalla stessa amministrazione di cui faceva parte Joe Biden.
Tutto alla luce del sole, con l’endorsement pubblico a favore di Matteo Renzi da parte di Barack Obama, poco prima di cedere lo studio ovale alla Casa Bianca a Donald Trump. «Ci sarà un referendum per ammodernare le istituzioni italiane che può aiutare l’Italia verso un’economia più vibrante. Il Sì al referendum aiuterà l’Italia, le riforme di Renzi sono quelle giuste. Io tifo per lui, per le sue riforme coraggiose e secondo me deve restare in politica comunque vada» dichiarò il presidente Usa, ad un mese dal referendum, con una assist elettorale al governo italiano senza precedenti (ricambiato da Renzi e Gentiloni, allora ministro degli Esteri, con l’augurio della vittoria della Clinton, candidata dei Democratici Usa). Anche l’occasione era fuori dalla norma. Un invito alla Casa Bianca, per Matteo Renzi e consorte Agnese (più ospiti) per l’ultima cena ufficiale della presidenza Obama, una tappeto rosso offerto all’amico Matteo per lanciarlo verso la vittoria al referendum costituzionale. Due ore di colloquio nello Studio Ovale e una accoglienza trionfale insieme alla moglie nel South Lawn, davanti ad una folla festante con le bandiere dei due Paesi. «Mai nessun presidente Usa si era mai sbilanciato così con un capo di governo italiano – annotò l’Ansa -, sperando di poter lasciare a Hillary Clinton un testimone che Renzi ha già raccolto prenotando un incontro con lo staff della candidata democratica».
Una indicazione di voto molto precisa dagli Stati Uniti, malcelata dietro il protocollo diplomatico che non prevede ingerenze dirette. «Spetta agli italiani decidere. Posso solo ricordare come il presidente americano Barack Obama sostiene l’agenda di riforme del primo ministro Matteo Renzi» disse alla vigilia del referendum costituzionale l’allora portavoce della Casa Bianca, Eric Schultz. Non a caso Renzi chiuse la campagna referendaria citando proprio Obama e il suo storico slogan: «La vera sfida, come insegna Obama, sta nella politica della speranza e la differenza è tra chi dice yes we can e chi dice sempre no a tutto». Un endorsement che non ha portato bene, come avevano previsto in molti dopo l’augurio di Obama per la sconfitta della Brexit. Ma già l’ambasciata Usa in Italia si era attivata per sponsorizzare la vittoria del Sì renziano. L’ambasciatore John Phillips si era espresso chiaramente, spiegando che «la vittoria del No sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia. Molti Ceo di grandi imprese Usa guardano con grande interesse al referendum. La vittoria del Sì sarebbe una speranza per l’Italia, mentre se vincesse il No sarebbe un passo indietro».
Ma più di tutto, a indebolire la tesi di Biden ci sono tutti i sondaggi da maggio 2016 in poi, concordi nel registrare la vittoria, sempre più netta con l’avvicinarsi del referendum del 4 dicembre, del No alle riforme del governo Renzi-Boschi, poi vittorioso con un 59,1 a 40,9. Un semiplebiscito, con una partecipazione al voto eccezionale per un referendum, oltre il 65%, pari a 33,2 milioni di italiani mobilitati per bocciare la riforma simbolo della stagione renziana. E forse proprio per questo, come ammise lo stesso Renzi, «personalizzare il referendum è stato un errore». Aveva promesso che avrebbe lasciato la politica, e la parte di elettori che non vedeva l’ora di mandarlo a casa lo ha preso in parola. Poi dopo la sconfitta si è dimesso da premier, per il resto la promessa è stata disattesa. Infine, per spiegare il trionfo del No, basta ricordare che nel fronte anti-Renzi si erano coalizzati un insieme di forze politiche che andava dalla sinistra estrema a Casa Pound, passando per i costituzionalisti alla Zagrebelsky. Senza neppure scomodare il Cremlino.
IL GIORNALE