Il mercato e quel bacino di ostilità

Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale, c’erano una notizia e un commento, apparentemente senza legami fra loro, che, insieme, attestavano l’esistenza di persistenze, di continuità storiche, confermavano il fatto che gli orientamenti di fondo di questo Paese non siano mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al 29,1 per cento, lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentava la rimonta dello statalismo dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamentare di nuovo preda di una frenesia anti-mercato come dimostrano tanti provvedimenti sfornati recentemente dal Parlamento. Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle raggiungono, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale.

I 5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della Democrazia Cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo: la percentuale di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è oggi più meno la stessa di allora. Ma le persistenze non si fermano qui. Nel suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha mostrato come la classe politico-parlamentare non abbia ormai più remore nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’antimercato si sta di nuovo diffondendo». Al punto che, truffaldinamente, si è arrivati a chiamare «privatizzazione» la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, un ente che è nelle mani dello stesso Stato.

Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettendo), anche una pratica politica. Quando finì la Prima Repubblica, ufficialmente a causa della corruzione, in realtà a causa di uno spettacolare «fallimento dello Stato» dovuto all’accumulazione di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo — benché ciò andasse contro le tradizioni del Paese — l’idea che bisognasse dare molto più spazio di un tempo alle forze del mercato. Quella breve stagione sembra ora alle nostre spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedimenti statalisti che danneggiano i consumatori generando le rendite politiche di cui ha parlato Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversato, oggi come un tempo, da vigorose correnti anti-mercato, se il mercato non fosse avversato da un cospicuo numero di nostri concittadini.

Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatrici: se è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamenti anti-mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra disponibile a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno esplicitamente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia aperta, il favore per il protezionismo, non sono invenzioni estemporanee, intercettano una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel Paese quella domanda.

Se gli orientamenti di fondo in materia di mercato o di democrazia liberale non sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle alleanze internazionali a proteggerci, almeno in parte, da noi stessi, dalle nostre peggiori inclinazioni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le componenti, fortunatamente non sparute, della società italiana che non si arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e statalista) devono arrangiarsi, contare solo sulle proprie forze. Fallito il tentativo di creare una democrazia maggioritaria, prevale la frammentazione politica e i poteri di veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo. In queste condizioni, chiunque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo.

CORRIERE.IT

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