Lo Stato sfratta e fa ammalare la nonna d’Italia terremotata
Per Giuseppina Fattori quell’estate del Duemila e sedici non è mai finita. Sono passati mesi e stagioni, sole e pioggia, vento e poi la neve e ancora il gelo.
Sono passati, insieme con il tempo, onorevoli, deputati, senatori, giornalisti, prelati, in pellegrinaggio da repertorio. Giuseppina ha novantacinque anni, la sua storia la conoscono tutti, nonna Peppina è la bandiera ammainata dallo Stato, la resa di chi dovrebbe agire invece di comiziare e girovagare. Giuseppina è stata portata via da quel container che è stata la sua cuccia momentanea, la sua seconda dimora dopo che dalla prima, una casetta in prefabbricato, era stata sfrattata seguendo le norme, i regolamenti violati. In questo bellissimo Paese nostro, i codici vengono sventolati anche in faccia a chi non ha più speranze se non quella di concludere dignitosamente una esistenza improvvisamente infelice e drammatica. Nonna Peppina appartiene a questa categoria, i suoi anni non contano, il suo stato di salute fa parte dell’età, eppoi ci pensino i famigliari, le figlie, i parenti, perché chi dovrebbe è impegnato in altro di più serio di una vecchia senza futuro.
L’Italia non è una Nazione, l’Italia è diventata un business, un affare, dunque Giuseppina e i suoi affanni, il gelo che stringe quell’unità abitativa, un residuato dell’altro sisma del Novantasette, cimelio di uno Stato inesistente, quel contenitore più freddo del ghiaccio, due metri per cinque, dove, per andare in bagno, bisogna aprire la porta e uscire al vento e al freddo, quel quadretto di una donna raggrinzita, con accanto Oreste, il suo gatto, sono tutti e soltanto asterischi, note folkloristiche, fanno presepe e mai, come in questi giorni di vigilia, servono a scrivere cartoline di repertorio.
Dicono: la Procura e il Tribunale del Riesame hanno applicato alla lettera la legge. La legge, una parola dentro e dietro la quale mai spuntano le facce, i volti di chi l’ha scritta e, in questo caso, di chi ha voluto e deciso di metterla in azione, togliendo una casetta di legno a una donna più fragile della terra che ha strappato case e alberi e uomini e bestie, improvvisamente, un anno e mezzo fa. Giuseppina è venuta fuori da quel buio, ha resistito al terremoto, ma non poteva immaginare che proprio lo Stato l’avrebbe messa in castigo, in ginocchio, un abuso, una molestia, questa non ha bisogno di essere denunciata tanto vile e miserabile continua a essere.
Nonna Peppina è stata trasferita nell’ospedale di Civitanova Marche, qui una stanza, qui un letto, qui qualcuno che la rifocilli. Fatica a respirare, la tosse l’affligge di notte e di giorno, il freddo del container l’ha costretta a lasciare un’altra volta una piccola culla che aveva addobbato.
Qualcuno ha scritto e detto «Stiamo tutti con nonna Peppina». Ma non è corretto, perché non stiamo con Peppina, semmai siamo Peppina, perché il destino di Giuseppina è simile a quello di altri cittadini, più di mille, dimenticati, oltraggiati, offesi dal silenzio codardo delle istituzioni.
La pietà viene usata come didascalia ai servizi televisivi, quindi si passa ad altro, ad altri, più importanti, più giovani, più bisognosi, non di conforto ma di supporto. Il diritto alla «dignità» della vita non rientra in nessuna proposta di legge, sarebbe, infatti, previsto dalla vita stessa. Giuseppina vede ronzare attorno a sé parole e promesse, offerte e carezze.
La vita, intanto, fugge via, così come per gli altri sfollati, senza casa, aggrappati alle speranze e, insieme, alla paura che la loro terra torni a tremare. Resta il sogno, resta la rabbia, resta la disperazione, resta infine l’attesa di una casa, nuova, prefabbricata, piccola, ma adatta per rivivere. Sono pronte, in fila una accanto all’altra, ma la legge le ha bloccate. Di nuovo la legge: questa conosce Giuseppina Fattori ma non conosce la vergogna.
IL GIORNALE