Il pericolo della Jihad di Natale
Nel 1935, con l’America affamata dalla Depressione, il presidente Roosevelt decise di aiutare gli scrittori impoveriti, incapaci ormai di scrivere una sola riga. Il suo leggendario programma di sussidi – Federal Writers’ Project – fu ospitato a New York nel cavernoso Port Authority, dove metro, treni e autobus affollano, oggi come allora, una frettolosa umanità. Tra pendolari e senza tetto, si misero in coda i futuri giganti della letteratura americana, il novellista John Cheever, Richard Wright, autore di «Ragazzo negro», Ralph Ellison, maestro de «L’uomo invisibile», pagati al venerdì, tre dollari al giorno.
Il botto prematuro ha svuotato la stazione gremita del lunedì prefestivo, scosso New York, ferito solo il terrorista con altri passanti storditi, e troppo in fretta i siti han titolato «Attentato fallito!». Neppure per sogno, Isis considera un successo – e i suoi canali esultano ai «maiali infedeli in fuga» sotto Natale – che un «soldato» armato abbia violato il cuore di Manhattan, seminando paura. In un prezioso lavoro di controinformazione, dall’account twitter @rcallimachi la saggista del New York Times Rukmini Callimachi spiega la psicologia del raid di Ullah: venendo dopo la strage downtown del 31 ottobre, 8 morti e quindici feriti con il camion di Sayfullo Saipov a falciare ciclisti, e la bomba in pentola a pressione di Ahmad Khan Rahimi, 17 settembre 2016, 31 feriti, l’attacco di ieri a Port Authority sfibra i nervi a cittadini e polizia.
Contar cadaveri non è l’unica strategia di Isis, che colpita sul campo in Siria e Iraq, richiama all’attacco le cellule, attive o dormienti, in Occidente. Akayed Ullah potrebbe esser stato in contatto diretto con il network del terrore islamico, o avere scelto il terrorismo ascoltando i sermoni online dei predicatori radicali, l’effetto non muta, ricordare ad americani ed europei, residenti e turisti, lavoratori pacifici, militari e manager, che la guerra continua, malgrado, prematuramente, si parli di «pace in Siria».
E dove, se non a New York a dieci giorni da Natale, questo messaggio deve scoccare? Dove, se non dietro il Rockefeller Center con albero festoso e pista di pattinaggio, a venti minuti dal Central Park con le carrozze cariche di bambini imbacuccati nel freddo, davanti alle chiese con i fedeli a intonare inni antichi, le vetrine dei saldi e il Babbo Natale dell’Esercito della Salvezza a raccogliere offerte scuotendo il campanone?
Se leggete queste righe, se ieri, tra amici, parenti, viaggiatori, tanti hanno mandato sms e telefonato, «Tutto ok? State bene?», se qualcuno cambia biglietto all’ultimo momento per Capodanno o cancella la prenotazione restandosene a casa, allora il colpo è andato a segno e «la guerra più lunga» del terrore fondamentalista, non conoscerà quartiere. Si scrive che Ullah volesse protestare contro l’uscita di Trump su Gerusalemme capitale, vedremo cosa dirà alla polizia ma paura ha comunque fatto e farà. New York stringe i denti e va avanti, lo so bene, ho passato la vita, come i miei figli, su quei treni e in quelle stazioni, verso l’hangar spoglio del Port Authority, l’ente che governava anche il World Trade Center abbattuto con 2753 morti nel 2001. Ne era allora a capo Lew Eisenberg, l’attuale ambasciatore Usa in Italia, che passò mesi a contare vittime e ricostruire macerie. Se Port Authority ritorna bersaglio del terrorismo non è un caso, e fa rabbrividire chi intuisce come, in America e in Europa, a lungo dovremo convivere con la guerra ai killer islamisti.
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