Ecco i doveri (in più) che spettano ai giudici
«Soldato Jacovacci, ti sarà el più anzian ma ti xé anca el più mona», dice un sottufficiale nel film «La grande guerra» ad Alberto Sordi, appena promosso caporale e già sbronzo di potere. E così verrebbe da rispondere al giudice Francesco Bellomo che, prima di far sparire il materiale più imbarazzante dal web, si vantava anche d’avere «un quoziente intellettivo di 188 (media umana 100)» e d’aver avuto «un’immensa quantità di donne». Peraltro, aggiungeva il gentleman, «di elevata qualità media». Lasciano senza fiato le vanterie da galletto del consigliere di Stato finito in questi giorni sulle prime pagine per le «regole» dettate alle giovani laureate in giurisprudenza che per entrare in magistratura si erano iscritte al suo corso di formazione alla scuola «Diritto e scienza». Basti leggere il diario delle «conquiste» da sciupafemmine sbandierate sulla rivista «scientifica» della scuola e rivelate da Virginia Piccolillo: «Ci incontriamo prima della lezione sul piano dove alloggio e lei mi abbraccia e bacia ripetutamente… Sono stato anni in Sicilia quindi non posso attribuire la veemenza della fanciulla al temperamento della specie femminile locale». Finezze da caserma che mai si sarebbe permesso neppure il mitico «Zanza», storico maschio alfa dei bagnini riminesi. Ma il punto, ovvio, non è questo. Né le fanfaronate ulteriori inserite nei «contratti» da questa specie di Capitan Sputasaette in toga.
Come, per citare il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa che lo vuole destituire, «una clausola limitativa relativa a matrimonio e fidanzamento». Per capirci: «applicando i dettami della teoria della selezione naturale» la scelta dei fidanzati «deve cadere sul soggetto che presenta le caratteristiche più vantaggiose. La preferenza deve essere dunque accordata al soggetto più dotato geneticamente».
Il punto è: come ha fatto un «maestro» di tal fatta a entrare a Palazzo Spada, la sede di quel Consiglio di Stato che fornisce al governo e alle regioni i pareri sulle regolarità e la legittimità dei vari atti amministrativi e ha l’ultima parola sulle sentenze, spesso delicatissime, dei vari Tar? Fosse anche tecnicamente un genio, la preparazione «scientifica», da sola, può bastare? O un giudice davvero all’altezza dei compiti che gli sono stati affidati, come suggerisce il buon senso, deve essere dotato anche di sobrietà, misura, consapevolezza del ruolo ricoperto?
In ogni cesta, ovvio, può esserci una mela ammaccata. O addirittura marcia. Si pensi al giudice milanese, che per non farsi trovare con le mani nel sacco gettò i soldi della corruzione in un cassonetto. O al collega, consigliere di Stato, romano, condannato con rito abbreviato in primo grado a poco più di un anno per prostituzione minorile. Per non dire del caso di un consigliere d’appello che anni fa venne sorpreso mentre compiva, come si diceva, allora «atti innominabili» con un ragazzino: arrestato, processato e condannato se la cavò infine con un’amnistia e la restituzione del grado e degli stipendi.
Capita. In tutti i mestieri. Proprio per la delicatezza del compito loro assegnato, però, ai magistrati che devono giudicare gli altri viene chiesto di essere più solleciti nel raccogliere le denunce, più zelanti nell’esaminarle, più severi non solo nel giudicare i reati ma nel pesare l’opportunità di certi comportamenti. Lo sono stati? Sempre? O hanno preferito spesso non calcare la mano o addirittura nascondere la polvere sotto il tappeto come è successo troppe volte nei confronti di chi per anni grondava di arbitrati e ricchissimi incarichi esterni e ci scherzava su dicendo che «la legge è la moglie, gli incarichi l’amante»?
Può darsi che scrivere in un «contratto» che «il borsista deve attenersi al “dress code” in calce e, comunque, deve curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurarne il più possibile l’armonia, l’eleganza, la superiore trasgressività» non sia un reato. E che non lo sia neppure, in situazioni e lavori e luoghi diversi, suggerire le minigonne e i tacchi a spillo.
Può darsi. Ma è opportuno pretendere questi pedaggi da cascamorto in un istituto privato che si presenta come una «Scuola di Formazione Giuridica Avanzata specializzata nella preparazione al concorso in magistratura ordinaria»? Ed è opportuno che altri magistrati in servizio, come il rodigino Davide Nalin, frequentino i convegni anti-violenza e insieme collaborino senza un cenno di dissenso con una rivista come quella citata dove intere puntate sono state dedicate a sgocciolare veleni, con nome e cognome, su una ragazza via via andata in crisi al punto di ridursi a uno scheletro di quarantuno chili?
«Non posso raccontare i fatti, perché sono tenuto al silenzio, ma non sono come li hanno descritti», ha detto il consigliere di Stato al Corriere, «Anche se lo fossero però sarebbe solo una vicenda di costume». Sic… Ma cosa insegna, un «professore» che dice una frase così insensata, solo commi, codici e codicilli?
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