Così ho provato a comperare i Bitcoin, ma mi sono fermata: troppi dubbi
Ho provato a comperare i Bitcoin e mi sono fermata. Perché dare a non so chi, definitivamente, i dati della mia carta di credito, del mio conto corrente? Non lo faccio neanche quando acquisto un biglietto del Frecciarossa, eppure conosco Trenitalia. Ma qui, chi sono “loro” ? E chi mi garantisce che, dopo che ho guadagnato qualcosa (se succede, e finora succede), i soldi mi vengano accreditati sull’unghia sul conto, un euro dopo l’altro?
E chi mi assicura che possa vendere quando voglio e al prezzo di mercato questa criptovaluta, che gira sulla blockchain, una tecnologia criptata di trasferimento ritenuta «sicurissima» dagli addetti ai lavori, ma complicatissima (praticamente un insieme di algoritmi e validatori fisici, persone, sostituiscono la banca centrale, per incrociare gli scambi)? Questi i miei dubbi. Si sono affastellati in corso d’opera. Difatti mi sono fermata, restando lì, con il cellulare in mano e quell’icona dell’app che ancora mi occhieggia, azzurra e perfidamente invitante, dallo schermo. Quella «C» di Coinbase, così si chiama la mia app, con il wallet, il portafoglio per contenere le criptovalute.
Il grafico dell’Everest
La apri e subito ti mostra il grafico dei Bitcoin, che oggi, 19 dicembre 2017, alle dieci del mattino valevano 18.899 dollari (-50 dollari da ieri, come dire -0,26%), cioè 16.005 euro (l’uno!) e in gennaio non arrivavano a mille (792,10 dollari, 670 euro). Un’impennata che neanche l’Everest. Ma niente paura, si può comperare per frazioni. Frazioncine. Anche 50 euro. L’esca è vicina alla bocca di tutti. Difatti c’è chi comincia a usare i Bitcoin, in qualche altrove, per pagare il conto al ristorante o acquistare una macchina. Moneta virtuale, ma dati della privacy reali, realissimi. Preziosi e regalati.
L’app C
Nel mio caso, comunque, è andata così. Un mio collega tecnologico si avvicina: «Vuoi guadagnare 500 euro in due giorni? Io l’ho fatto». «E dai proviamo». «Scarica l’app». «Fatto». «Adesso procedi». Coraggio, voglio investire 50 euro. La prima cosa che mi viene richiesta è la registrazione con nome e cognome, email, password e la certificazione di avere più di 18 anni (ma so di ragazzini che lo fanno regolarmente con il profilo della madre, me l’hanno detto martedì sera a una festa prenatalizia di professionisti borghesi milanesi: non si parlava d’altro, tra un calice di prosecco e una tartina di uova di salmone). Dopo la conferma dell’indirizzo email, si apre l’applicazione: «Sei quasi pronto per investire», dice lo schermo. Vedi d’un tratto tutte le criptovalute trattate: i Bitcoin, ovviamente, i più famosi; e poi gli altri, molto meno cari, si fa per dire: gli Ethereum a 858 dollari (726 euro, +20% da ieri), i Litecoin a 360 dollari (304 euro, +14%). Ma prima ancora di partire lo smartphone mi impone: «Completa il tuo conto». E chiede di inserire: a) il mio numero di cellulare con annesso codice di verifica ricevuto; b) aggiungere un metodo di pagamento: dal conto Coinbase (se ce l’hai), alla carta di credito o di debito, fino al conto corrente. Scelgo la carta di credito, mi chiedono di scannerizzare e fotografare la carta d’identità, il passaporto o la patente. Lascio perdere, non ho voglia di mettere in Rete i miei documenti personali.
La banca estone
Così torno indietro e scelgo l’opzione conto corrente. Per «verificare il conto corrente», è scritto, mi chiedono di mandare un euro su un deposito indicato. Vediamo dove finisce quest’euro. Sopra la schermata c’è scritto: «Collegati con il tuo conto bancario». Iban destinatario: EE957700771001355096; Nome destinatario: Coinbase Uk, Ltd.; Paese banca: Estonia; Nome banca: As Lhv Pank (quella che ha sviluppato i conti deposito in Bitcoin, scoprirò in seguito); Indirizzo banca: Tallinn; Indirizzo del destinatario (finale, effettivo): Londra. Presto detto: mando un euro a una banca estone, ma a riceverlo è una banca con sede a Londra. Intanto il mio Iban è finito nelle loro mani. Non mi convince. Soprassiedo, benché il mio amico insista: «La catena è sicura, si guadagna!». I 50 euro restano nel mio portafoglio.
Missione vendita
Ma il punto che mi lascia più perplessa è la vendita. Se entrare nella criptovaluta è infatti relativamente facile (abdicando a ogni privacy, sia chiaro), e si può persino acquistare Bitcoin in Posta con Postapay, dal tabaccaio con Sisal, online con l’app Jiffy, uscirne è complicato. Vendere a chi? E come? A un intermediario tra clienti? A una tra le tante «exchange company» dedicate, società molteplici e poco definite? Il livello di sicurezza è basso, avverte il web. E poi bisogna fornire, di nuovo, i propri dati sensibili, per ricevere gli euro. La carta di credito, per esempio. O l’Iban del proprio conto corrente. Si può provare a vendere i bitcoin online. O addirittura andare di persona a ritirare i soldi da chi vuole comperare la criptovaluta. A parte la difficoltà che qualcuno si prenda la briga di muoversi per acquistare piccole somme criptrovalutate, sul web spiccano gli allarmi: «Non fatelo in luoghi poco affollati!». Tipo scambi del Ponte delle spie, per capirsi. Inoltre i tempi di accredito possono essere lunghi e non sono rari, pare (almeno, a leggere i siti su Internet), i casi di compratori che si siano tenuti sia i Bitcoin dello sfortunato venditore sia i soldi con i quali dovevano pagarli. Altro problema è il prezzo. Una considerazione frequente sul web è infatti questa: «Quanto devo stare sotto il prezzo di mercato perché i miei Bitcoin siano appetibili»? Perché per vendere la criptovaluta, apprendo, devono incrociarsi domanda e offerta. Bisogna cioè fare una proposta e augurarsi che venga accettata da qualcuno. Il prezzo di riferimento (come i 16 mila euro di oggi) è solo un riferimento, appunto. Nessuna garanzia che sia pagato. Perciò mi faccio l’idea che vendere sia molto più complicato che comprare. E rischioso. In Borsa lo chiamerebbero scarsa liquidità.
Effetto Mary Poppins
E comunque. In questo momento tutti, tanti comprano Bitcoin e simili e hanno alti guadagni — virtuali. È un fatto. Ma chissà se tutti vendessero ora (a patto di riuscirci bene e in fretta): che succederebbe? Non è che si genera l’effetto Michael Banks? È il piccolo del film Mary Poppins, che a un certo punto va alla banca dove lavora il padre, Mr. Banks, perché vuole indietro il soldino versato. La banca non vuole ridarglielo, succede un parapiglia, tutti gli altri clienti copiano il bambino reclamando i propri soldi. La banca fallisce. Sarò catastrofica, ve lo concedo, ma i miei 50 euro resteranno euro. Sono solo lo 0,3% di un bitcoin e non crescono come le monete sull’albero di Pinocchio, ma almeno sono soldi veri. Opinioni da neofita, sia chiaro. Se qualcuno di voi lettori ha avuto in accredito sul proprio conto corrente dei soldi, avuti in contanti dalla vendita delle criptovalute — poniamo mille o 10 mila euro — ci scriva.
Chiusure e derivati
I segnali non sono positivissimi. È proprio di oggi l’annuncio che la piattaforma di scambio di Bitcoin della Corea del Sud, Youbit, «ha dichiarato che sta per chiudere, dopo essere stata violata due volte quest’anno», scrive LaPresse-Retuters. Fra l’altro ora che sui Bitcoin c’è pure il future (ha debuttato il 18 dicembre al Cme, la borsa mercantile di Chicago), lo strumento finanziario che consente di scommettere sull’andamento futuro di un bene, potrebbe anche partire la speculazione al ribasso, in un mercato che non è regolamentato . Mentre fioriscono i prodotti derivati più strani come i Cfd, «contratti per differenza» sulle criptovalute, del broker londinese Activetrades. Scommettono sui balzi di prezzo. Dalla valuta virtuale si sta espandendo la finanza virtuale. Prepariamoci.
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