Il clamore e le cose già mutate

Nel libro di Michael Wolff sulla Casa Bianca di Donald Trump non vi è quasi niente che non fosse già stato scritto o detto negli scorsi mesi. Conoscevamo la volubilità di Trump, la sua incapacità di concentrarsi sulle questioni di maggiore importanza, la sua incontenibile vanità, i suoi continui voltafaccia, il suo gusto per la provocazione e per la diplomazia dei
tweet. È veramente nuovo soltanto il fatto che oltre a questo ben conosciuto ritratto di Trump, vi sia nel libro una frase di Steve Bannon, consigliere strategico del presidente nei suoi primi mesi alla Casa Bianca e portavoce di una destra sguaiata, nazionalista e razzista. A proposito di un incontro di membri della famiglia Trump con una avvocata russa alla Trump Tower, Bannon, suscitando la collera del presidente, ha detto che quell’incontro fu sedizioso (treasonous). Ma Bannon è stato licenziato da Trump cinque mesi fa e la stampa liberale americana non lo aveva mai considerato, prima d’ora, degno di essere ascoltato e creduto.
Non è tutto. Come ha osservato il New York Times (una delle voci più critiche della presidenza Trump), il caso Wolff appartiene alle tradizioni di una capitale pettegola e ghiotta di indiscrezioni, in cui i collaboratori di un presidente cedono spesso, prima o dopo, alla tentazione di conquistare notorietà con un libro più o meno scandalistico sugli errori e i peccati del loro vecchio padrone.

E’ già accaduto a molti presidenti fra cui George W. Bush, accadrà a Obama nei prossimi mesi e non è sorprendente, nel caso di Trump, che sia accaduto all’inizio della sua presidenza. Esiste una parte della società politica americana, liberal e democratica, che ha sempre considerato Trump un corpo estraneo, dannoso per l’immagine dell’America nel mondo, e non dispera di vederlo un giorno sul banco degli imputati se sarà possibile avviare contro la sua persona la procedura dell’impeachment, prevista dalla Costituzione americana.

Ma il quadro non sarebbe completo se non riconoscessimo che vi è anche un partito «pro Trump», oggi rinvigorito da una riforma fiscale che piace all’industria, alla grande finanza, alle Borse, a quella parte del mondo del lavoro, contraria alla globalizzazione, che spera nel ritorno in patria di aziende emigrate verso la Cina e altri Paesi. Come è stato detto in altre occasioni quella che si combatte negli Stati Uniti oggi è una forma incruenta di guerra civile. In un Paese dove la bipartisanship (l’intesa fra i due maggiori partiti sulle questioni di interesse nazionale) è considerata una virtù americana, lo stile e la personalità di Donald Trump hanno diviso l’America. Il Russiagate (l’indagine sulle interferenze del Cremlino nelle elezioni americane) non è soltanto un problema russo-americano. È soprattutto un problema americo-americano.

Trump non ha diviso soltanto il suo Paese. Scompigliando alcuni vecchi canoni della politica estera di Barack Obama, ha creato per gli Stati Uniti nuovi amici e nuovi nemici. In Medio Oriente potrà contare d’ora in poi sulla amicizia dell’Arabia Saudita, di Israele e di tutti coloro che desiderano, anche per ragioni alquanto diverse da quelle del presidente americano, una rivoluzione a Teheran. E ha contribuito infine alla divisione dell’Unione Europea. Nella sua battaglia con la Commissione di Bruxelles, dopo l’adozione nel Parlamento polacco di una legge sulla magistratura che ne limita i poteri, la Polonia potrà sempre contare sull’amicizia e sul sostegno di Trump. Le stesse considerazioni valgono per l’Ungheria e la Romania a cui possono essere mosse le stesse accuse. Forse, se queste divergenze fra europei avranno per effetto una Europa a due velocità, dovremo ringraziare Trump.

CORRIERE.IT

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