Razzisti della porta accanto, un italiano su due giustifica violenze e aggressioni sui social
Dei 55 italiani su cento che, rispondendo a un sondaggio di Swg (15 novembre 2017), hanno giustificato il razzismo, la gran parte probabilmente escluderebbe di essere razzista. La domanda era diretta: «Determinate forme di razzismo e discriminazione possono essere giustificate?». Per il 45 per cento è «no mai». Per il 29 «dipende dalle situazioni». Per il 16 «solo in pochi specifici casi». Per il 7 «nella maggior parte dei casi». Per il 3 «sempre». Se la domanda fosse stata «lei è razzista?» è presumibile che avrebbe risposto sì il 3 per cento per cui il razzismo è giustificabile sempre, e forse alcuni del 7 per cento per cui è accettabile nella maggior parte dei casi. Il razzismo è una malattia insidiosa, dà sintomi vaghi, talvolta deboli o indecifrabili: non si prende il razzismo come un’influenza, dall’oggi al domani.
Matteo Salvini esclude di essere razzista (in buonissima fede, si deve presumere) eppure il primo gennaio ha scritto un tweet che, nella sua apparente innocuità (fra centinaia ben più aggressivi scritti dal capo leghista), spiega bene la noncuranza del pensiero e del linguaggio: «Vado a Messa a Bormio, e sento dire dal prete che bisogna “accogliere tutti i migranti”. Penso ai milioni di italiani senza casa e senza lavoro, al milione di bambini che in Italia vivono in povertà, e prego per loro».
Naturalmente è legittimo e per niente illogico ritenere che non si possano accogliere tutti i migranti, ma pregare per i poveri italiani sembra una trasposizione un po’ temeraria del sovranismo nella fede: è complicato pensare a un Dio che accolga preghiere in base al passaporto o al colore della pelle, ed è stupefacente intuire tanti cristiani disinvoltamente immemori della vocazione universalistica ed ecumenica del cristianesimo, costituzionalmente antirazzista.
Il linguaggio della politica
Anche Massimo Corsaro, deputato di centrodestra, ogni volta trasecola. Dopo il derby della settimana scorsa, ha dato dello zingaro all’ex allenatore del Torino, Sinisa Mihajlovic. Così come si era rivolto al collega ebreo, Emanuele Fiano, dicendo che portava le sopracciglia folte per nascondere i segni della circoncisione. In entrambi i casi, Corsaro ha ammesso una certa intemperanza linguistica, dovuta alla foga, ma nessun cedimento al razzismo. La novità evidente è che certe cose, fino a pochi anni fa, un uomo delle istituzioni non si sarebbe nemmeno sognato di dirle e tantomeno l’avrebbe fatta franca.
La violenza quotidiana
Un’inchiesta dell’associazione Lunaria, presentata a Montecitorio lo scorso ottobre, ha registrato 1483 casi «di violenza razzista e discriminazione» tra il primo gennaio 2015 e il 31 maggio 2017. Da gennaio 2007 ad aprile 2009, la stessa Lunaria ne aveva registrati 319. Di questi 1483 casi, 1197 vanno alla voce violenza verbale, e non bisogna per questo pensare che siano meno gravi: un anno fa Pateh Sabally, ventiduenne gambiano, decise di suicidarsi buttandosi nel Canal Grande a Venezia; da un vaporetto lo videro dimenarsi, nessuno si lanciò per salvarlo, alcuni gli fecero un video mentre affogava, qualcuno rideva e diceva «ueh Africa», qualcuno gli diceva «scemo», «negro». Lo scorso giugno, in un centro estivo del riminese, una bambina cadde mentre giocava e due coetanei le dissero «ti sta bene che sei caduta, a terra devono stare i negri» e «io vicino a una negra non ci sto». Lo scorso novembre, in provincia di Padova, in una partita fra quattordicenni un ragazzo nigeriano si sentì dire due volte «stai zitto negro» da un avversario che poi gli rifilò un pugno, e quando il nigeriano reagì fu espulso dall’arbitro. Sono episodi pescati alla rinfusa fra centinaia. Se ne sono citati due consumati fra bambini o ragazzini per rendere l’idea dell’aria che tira.
Le istituzioni contagiate
L’aspetto più stupefacente del lavoro di Lunaria è che il maggior numero dei casi (615) ha per protagonisti «attori istituzionali». Hanno spesso a che fare coi sindaci e le loro ordinanze teoricamente a tutela dell’ordine pubblico. Nell’agosto 2016 il sindaco dem di Ventimiglia vietò la distribuzione di cibo ai migranti in attesa alla frontiera; nello stesso periodo la sindaca di Codigoro, Ferrara, (sempre Pd) propose tasse più alte per chi affittava appartamenti ai richiedenti asilo; nel settembre 2017 il sindaco leghista di Pontida, Bergamo, decise di riservare i parcheggi soltanto a donne comunitarie ed etero. Sindaci di sinistra e di destra, tutti accomunati dallo stupore del giorno dopo, e dalla spiegazione che no, mica si trattava di razzismo. Poi, naturalmente, ci sono anche le violenze fisiche: 84. Un solo esempio, notissimo: nel luglio 2016 Emmanuel Chidi Namdi, trentaseienne nigeriano, fuggito dalle persecuzioni d’estremismo islamico di Boko Haram, passeggiava per Fermo con Chinyery, la fidanzata ventiseienne, quando due del posto hanno preso a chiamarla «scimmia»; Emmanuel provò a difenderla e fu aggredito con una spranga e, caduto a terra, massacrato a calci e a pugni.
L’intolleranza via social
Fin qui si tratta di fatti di cronaca, ma poi c’è una frenetica attività di razzismo quotidiano. L’associazione Vox, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e La Sapienza di Roma, ha monitorato il social Twitter nel periodo che va dall’agosto 2015 al febbraio 2016, e ha trovato 412 mila tweet misogini, razzisti o omofobi. Circa 42 mila tweet erano contro i migranti in quanto tali, soprattutto se musulmani. Secondo il Pew Research Center (Think Tank di Washington) il 68 per cento degli italiani è ostile ai musulmani, e del resto un’indagine di Ipsos evidenzia che in Italia la maggioranza è convinta che gli immigrati di religione musulmana siano oltre il 20 per cento della popolazione, quando invece la percentuale balla fra il 2,5 e il 3,5 per cento (secondo varie fonti, che tengono più o meno conto dell’immigrazione clandestina). Così, per tornare all’inizio, al sondaggio di Swg, si scopre che tendenzialmente gli italiani preferiscono per vicino di casa un ebreo piuttosto che un musulmano, ma preferiscono un altro italiano piuttosto che un ebreo, qualsiasi cosa voglia dire, visto che gli ebrei in Italia sono quasi tutti italiani.
Cresce l’antisemitismo
E qui arriviamo all’ultimo studio, proposto dalla Anti Defamation League – Osservatorio antisemitismo Italia. Nel 2016 i casi di antisemitismo in Italia sono stati 130, almeno quelli di cui si è venuti a conoscenza; dieci anni prima, nel 2006, erano stati 45. «Dalla Palestina alla Patagonia… Gli avvoltoi giudei alla conquista del pianeta», «sionisti cancro dell’umanità», «semiti assassini rituali» si legge su vari profili Facebook dedicati alla riemergente lotta all’ebreo; nei dintorni dell’antico ghetto di Ferrara, poche settimane fa, via Voltapaletto è stata trasformata a vernice in via Hitler; all’ingresso del liceo Seneca di Roma, a ottobre è apparsa la scritta «ingresso ebrei».
Anche qui si potrebbe andare avanti per pagine, resta giusto lo spazio per dire che – sempre secondo l’Anti Defamation League – nel 2014 il 20 per cento degli italiani aveva sentimenti o pregiudizi antiebraici (come, per esempio, «gli ebrei muovono l’economia mondiale contro gli altri popoli»), e nel 2015 erano saliti al 29. E per ricordare la manifestazione filopalestinese del 29 dicembre a Milano, piazza Cavour, dove immigrati musulmani hanno scandito un coro tradizionale: «Ebrei tremate, l’armata di Maometto ritornerà». Per sottolineare l’ovvio: nelle società dove il razzismo cresce, chi lo subisce spesso poi lo alimenta, in un clima facilone, crudele ed epidemico in cui tutti hanno conquistato il diritto alla spudoratezza.
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