La potente calamita dell’unità
Uniti per vincere, non ancora pronti per governare: sta tutto qui il senso del vertice del centrodestra ad Arcore, che ha sancito il pieno accordo tra i tre soci fondatori dell’alleanza e l’apertura alla cosiddetta «quarta gamba», il polo di tutti gli ex che mette insieme oltre un milione di voti e potrebbe risultare decisivo nelle urne il prossimo 4 marzo.
In primo piano c’è il cavallo di battaglia di Salvini, la cancellazione degli «effetti deleteri» della riforma Fornero, a cui si affianca la promessa berlusconiana di portare a mille euro i trattamenti minimi di previdenza.
Poi una serie piuttosto generica di slogan vecchi e nuovi (ma da domani due commissioni composte da esponenti di tutti i partiti membri saranno al lavoro per dettagliare le proposte e comporre il complicato puzzle delle candidature comuni): «meno tasse, meno burocrazia, più aiuti a chi ha bisogno, più sicurezza per tutti, riforma della giustizia e giusto processo» e così via, dalla flat tax, non è chiaro se nella versione Lega al 15 per cento o se in quella Forza Italia al 22-23, a un «imponente piano di sostegno alla natalità» di matrice meloniana, a un più severo controllo dell’immigrazione.
Si tratta in buona parte di parole d’ordine popolari, finalizzate a catturare un elettorato esasperato da otto anni di crisi economica e non ancora in grado di percepire gli effetti della ripresa, e adatte pure a trovare punti di incontro per eventuali governi di larghe intese, rinnegati a parole e allo stesso tempo considerati soluzioni di riserva, se, pur partendo in discesa, il centrodestra non dovesse raggiungere la maggioranza in entrambe le Camere.
Ma quello che colpisce di questo abbozzo di programma è che il centrodestra lo propone – meglio sarebbe dire lo ripropone, tra l’altro all’indomani del richiamo al realismo del presidente Mattarella – come se non fosse mai stato al governo nel precedente quarto di secolo, e come se molti degli obiettivi (due per tutti, il taglio delle tasse e la riforma della giustizia), riconfermati nelle sei campagne elettorali dal 1994 a oggi, non si fossero già rivelati irrealizzabili e non avessero determinato crepe profonde nell’alleanza poi dissoltasi sei anni fa.
L’azzardo maggiore è senza dubbio la rimozione della legge Fornero: una riforma che ha avuto indubbiamente alti costi sociali, che sta in cima alle incavolature di gran parte degli elettori (in quasi ogni famiglia italiana c’è una persona che vorrebbe e non riesce ad andare in pensione), ma che a leggere gli studi più approfonditi e aggiornati è stata fondamentale, non tanto per il risanamento dei conti pubblici che rimangono traballanti, ma per il contenimento del loro dissesto.
Inoltre, la convinzione, già egualmente sperimentata da centrodestra e centrosinistra negli anni in cui si alternavano al governo, di cancellare le riforme fatte dai predecessori senza entrare nel merito dei contenuti e degli effetti, solo per onorare i patti con gli elettori, in passato ha determinato solo conseguenze negative. Aprendo la strada, in certi momenti, agli «odiati» governi tecnici chiamati a imporre rimedi inevitabili, rivelatisi impossibili per gli esecutivi politici.
Insomma, se Prodi nel 2006, per accontentare i sindacati, non avesse cancellato lo «scalone» nell’età pensionabile introdotto dal ministro Maroni, la Fornero non sarebbe mai arrivata. E se invece di contrapporsi ideologicamente, con reciproche accuse di piani autoritari, scambiate di legislatura in legislatura, centrodestra e centrosinistra avessero dato luogo a un vero confronto parlamentare sulle riforme costituzionali, archiviate chissà per quanti anni dopo il referendum del 2016, oggi avremmo anche una Costituzione riformata.
LA STAMPA