Affrontare il rancore sociale studiando bene la realtà del lavoro

Se dovessimo operare una sintesi di questo primo scorcio di campagna elettorale verrebbe da dire che gli spin doctor, gli uomini delle strategie elettorali dei partiti, si sono fatti l’idea che il rancore sociale si possa e si debba curare quasi esclusivamente con la spesa pubblica. Lo Stato per rimettersi in connessione con i segmenti più svantaggiati della società non avrebbe altra strada che comprare consenso nel modo più tradizionale che la politica conosca. Indebitandosi.

Come del resto ha già fatto negli anni ‘70 adottando il sistema retributivo nel calcolo delle pensioni e gonfiando l’occupazione nelle aziende pubbliche. Ma, ricordato che questa volta le istituzioni comunitarie e i mercati finanziari non ce lo permetterebbero, siamo proprio sicuri che non esistano altre strade per disinnescare il rancore? Forse peccherò di scarsa originalità ma credo che se si vuole ricostruire un legame non illusorio tra Paese legale e Paese reale non si possa che mettere al centro, anche della contesa elettorale, il lavoro. Passa qui lo spartiacque tra esclusione e inclusione, tra partecipazione attiva ai destini di una comunità ed emarginazione.

La bassa occupazione è un nodo che la politica non può pensare di eludere in eterno o di bypassare proponendo di retribuire il non-lavoro. Per onestà intellettuale va detto che qualcosa in queste ore sta maturando. Nelle anticipazioni del programma del centro-destra fa capolino una sorta di raddoppio del jobs act con esenzioni fiscali/contributive per sei anni per le imprese che assumono a tempo indeterminato. Ieri Matteo Renzi ha messo sul tappeto una proposta di introduzione del salario minimo anticipando persino l’ipotetico prezzo (tra i 9 e i 10 euro l’ora). Prime sortite che in tutta evidenza risentono del clima iperbolico in cui sta avvolgendosi la competizione politica di questi giorni visto che un’esenzione come quella immaginata dalla coalizione guidata da Silvio Berlusconi sarebbe non generosa ma generosissima e il salario minimo individuato dal segretario del Pd sarebbe così alto da correre il rischio di rimanere totalmente inapplicato. Ma in questa fase più che usare la matita rossa e blu è preferibile apprezzare come il lavoro ritorni quantomeno visibile nell’elaborazione e nella comunicazione dei partiti. Il tempo per entrare più nel vivo non manca.

Alle forze politiche che prendono quest’impegno con maggiore serietà va chiesta però, come conseguenza logica di quanto detto prima, una maggiore aderenza ai problemi e ai meccanismi reali del mercato del lavoro. Materia che spesso si tende a semplificare e che invece presenta cento facce e altrettante contraddizioni. Solo per dirne una (macroscopica): siamo il Paese che guida la graduatoria europea dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, eppure in vari distretti del Nord non si trovano le figure professionali necessarie alle imprese.

La Camera di Commercio di Reggio Emilia nei giorni scorsi ha addirittura reso noto che in provincia il 29,8% delle aziende cerca personale ma non lo trova. Si eviti, dunque, di promettere l’ennesimo milione di posti e i partiti piuttosto dimostrino di conoscere le grandi trasformazioni che scuotono il lavoro: l’avvento delle tecnologie 4.0, i salari medi delle tute blu, il terziario low cost che stronca la mobilità sociale, i rider che portano il cibo a casa e i facchini della logistica, i ragazzi che hanno preso alla lettera Garanzia Giovani ma sono rimasti delusi. Dimostrando di conoscere questa umanità, di frequentare la società che si vuole rappresentare in Parlamento, la politica può anche pensare di affrontare il rancore senza tentare di comprarlo.

CORRIERE.IT

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