Le favole da evitare sul debito pubblico

Luigi Di Maio ha consegnato alla stampa un suo scritto in cui annuncia che il Movimento 5 Stelle sta elaborando un piano per ridurre in due legislature il debito pubblico del 40 per cento del Pil, da 130 circa, il livello di oggi, a 90. Il piano non comporterebbe tagli alla spesa pubblica, anzi dovrebbe prevedere un aumento della spesa per infrastrutture. Abolirebbe anche la riforma pensionistica (la legge Fornero), un provvedimento che la Ragioneria generale dello Stato stima produrrà, nel biennio 2019-20, un risparmio di 25 miliardi l’anno lordi (cioè senza tener conto dell’effetto sulle imposte pagate dai pensionati). Queste favole fiscali sono solo leggermente meno fantasiose delle promesse di Donald Trump (al quale Di Maio evidentemente si ispira), quando in campagna elettorale annunciava che avrebbe annullato il debito pubblico americano in 8 anni (due legislature appunto) aumentando, anche lui, le spese per infrastrutture e riducendo le imposte. Di Maio (proprio come Trump)non ci dice come intenda realizzare questa straordinaria riduzione del debito. Trenta-quaranta punti di taglio sul Pil in 10 anni non sono impossibili ma richiedono almeno un paio di cose: dei surplus di bilancio notevoli (altro che aumenti di spese e abolizione della legge Fornero!), e dei tassi di interesse reali che rimangano assai bassi, e questo non dipende da noi.

La storia e la teoria economica ci spiegano che per ridurre il debito ci sono tre modi. Il primo è svalutare il valore reale del debito con una «botta di inflazione». L’iperinflazione tedesca degli anni ’20 cancellò l’enorme debito pubblico che la Germania aveva accumulato durante la Prima Guerra Mondiale, contribuendo a provocare eventi sociali e politici drammatici. Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale l’inflazione svalutò, seppure in modo meno drammatico, il valore reale del debito, sia negli Stati Uniti che in Italia. Oggi però l’idea che il debito pubblico possa essere svalutato dall’inflazione è un’assurdità: non appena i risparmiatori lo sospettassero, i tassi di interesse salirebbero molto più dell’inflazione rendendo il debito ancora più costoso.

Il secondo modo è un ripudio. Se il nostro debito fosse detenuto solo da italiani, un ripudio comporterebbe una ridistribuzione di ricchezza da chi possiede titoli pubblici ai contribuenti. Ma questo non è il nostro caso. Il 40 per cento circa del debito italiano è detenuto da investitori internazionali. Un ripudio creerebbe una crisi di fiducia verso i nostri mercati, il blocco degli investimenti esteri, fallimenti bancari e una nuova crisi finanziaria. Un ripudio dopo l’altro, l’Argentina è passata da essere uno dei Paesi più ricchi del mondo a un caso quasi disperato.

La terza alternativa è una crescita del denominatore del rapporto debito/Pil più rapida della crescita del numeratore, cioè il deficit dei conti pubblici. In certi periodi storici — ad esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dopo la Seconda Guerra Mondiale — la crescita del Pil è stata cosi alta che il rapporto debito/Pil si è ridotto relativamente in fretta. Purtroppo tassi di crescita elevati come durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta non sono all’orizzonte. La conclusione è che ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito.

Un avanzo nel bilancio pubblico si può ottenere o riducendo le spese o aumentando le imposte. L’evidenza empirica dimostra che un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese riduce la crescita, così tanto che alla fine il rapporto debito/Pil anziché diminuire sale ancor di più. Invece, tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil perché non rallentano la crescita, o al massimo la influenzano di poco e per poco tempo. Questo è vero soprattutto per quelle riforme che bloccano l’aumento automatico di certe spese come le pensioni, soprattutto quando diventano incompatibili con l’allungamento della vita e il calo della natalità. È per questo motivo che cancellare la legge Fornero renderebbe ancor più difficile ridurre il debito.

Questo è ciò che si impara leggendo i libri di storia e qualche manuale di economia. Purtroppo questa campagna elettorale è piena di favole. In parte è inevitabile, ma a noi pare che si stiano superando limiti assai pericolosi.

CORRIERE.IT

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