Le bande giovanili e l’autorità svanita

A Napoli c’è una mamma ferita che pone domande e merita risposte. Una madre che non parla per «fatto personale» ma per dare voce a un’angoscia collettiva. Il tema è quello della sicurezza urbana, che è di ieri come di oggi, di Napoli come di Milano. Ovunque, dai tempi di Charles Dickens e di Oliver Twist, ci sono finestre rotte dai teppisti, e negli Usa — un quarto di secolo fa, ormai — ne hanno anche dedotto una fortunata teoria sulla tolleranza zero. Ovunque ci sono bande, gang, «paranze» o «paranzelle» (cioè non collegate alla criminalità organizzata) che spaccano nasi e spappolano milze per una bicicletta o un telefono cellulare. O che accoltellano e sparano per sancire il dominio territoriale. Ma altrove, come a New York, appunto, una soluzione si trova, o almeno si tenta, anche se le amministrazioni politiche cambiano colore e i «portatori ideologici» sono sindaci molto diversi come Rudolph Giuliani e Bill de Blasio. In Italia, invece, il dibattito sulle cose da fare da anni si avvita inutilmente su se stesso. E nell’inconsapevole rispetto di una drammaturgia consolidata, alla «Carnage» di Roman Polanski per intenderci, va avanti all’infinito. Anche nel film tutto inizia con un ragazzino che nel parco colpisce a bastonate al volto un coetaneo. Ma lì la divisione è tra genitori tolleranti e genitori intolleranti. Nella vita reale, quella degli opportunismi politici, invece, tutto si complica. E più si complica meno si decide.

Ci sono i «contestualisti», secondo cui quasi tutto dipende dal contesto urbano e sociale. E ci sono i «liberali», per i quali neanche le periferie mai rammendate e la precarietà assoluta possono cancellare il libero arbitrio. Ci sono gli allarmisti-assolutisti («ora basta, la misura è colma») e i minimalisti-relativisti («niente panico, tutto il mondo è paese»). Ci sono quelli per cui molto dipende dal potere persuasivo di «Gomorra» e quelli che invece assolvono la fiction ma accusano la globalizzazione dei social e i video jihadisti.

Mentre si discute, però, il sangue, come a Napoli, continua a scorrere: nelle piazze dei quartieri residenziale come davanti alle stazioni della metropolitana. Proprio da Napoli, però, ora viene questo documento eccezionale e coraggioso, che quasi appellandosi all’antica «parresia» greca dice a tutti verità scomode: ai potenti perché sono nelle istituzioni e ai potenti perché sono armati e minacciano. È la lettera che Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo, il ragazzo accoltellato alla gola e al petto, ha inviato al direttore de Il Mattino. Il senso è questo. Molti minori violenti di cui tanto si parla sono già «senza famiglia», perché hanno i genitori in carcere o impegnati a delinquere; o «senza scuola», perché non la frequentano o perché il sistema li lascia cinicamente indietro: evitiamo allora che restino anche senza Stato. Lo Stato delle leggi e delle regole. Di ciò che è lecito fare e di ciò che non lo è.

Più che dal caso di suo figlio, per la cui aggressione di gruppo, dopo tre settimane, l’unico identificato è ancora solo un minorenne «che si trincera nel silenzio e aderisce completamente agli inviti degli amici di Facebook a “stare tranquillo”», la signora Iavarone parte da uno degli ultimi episodi napoletani. E segnala che «sono tutti tornati a casa, con una semplice denuncia, i quindici ragazzi che a calci e pugni hanno spappolato la milza a un loro coetaneo». La domanda è: se non i genitori, se non i professori, se non i giudici minorili che nell’aggressione di quindici contro uno non hanno ravvisato né il tentato omicidio né l’associazione a delinquere, chi, una volta tornati a casa, spiegherà a questi ragazzi che hanno sbagliato? «Non parlo — dice la madre di Arturo — da una posizione morale forcaiola, ma solo perché questa violenza insensata mi pare figlia di troppi sfilacciamenti e amnesie civili».

In effetti, ciò che si chiede è uno Stato più autorevole e più responsabile. E un apparato meno conformista e meno compiaciuto. Se quattromila poliziotti e altrettanti carabinieri a Napoli sono pochi, bisogna trovarne altri. Se l’esercito guasta la vista ai turisti, pazienza, tanto i dati sui flussi sono confortanti. E se la popolazione non collabora alle indagini perché omertosa o impaurita, questo non costituisca un alibi per lo Stato ma uno stimolo a fare di più. Anche nel rammendare le periferie.

CORRIERE.IT

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