Che i contribuenti italiani paghino ancora, sotto forma di accise sui carburanti, per la guerra di Abissinia del 1935 o per la crisi di Suez del 1956 oppure per il disastro del Vajont del 1963 o per tutti i terremoti del Dopoguerra, fino alla missione in Libano del 1982, ebbene, che paghino ancora per le mille emergenze italiane è cosa forse poco nota ai più, ma che rientra nel folklore fiscale del Belpaese. Tutto è cambiato, insomma, ma le tasse «bugiarde» sono diventate parte del patrimonio nazionale: e poco conta che, come è stato osservato, la continuità del prelievo sia paradossale come l’insussistenza della motivazione iniziale. Non appartengono, però, al folklore, né per l’entità né per la pervasività tentacolare, quelle che potremmo definire le tasse «nascoste» di Regioni e Comuni: quella miriade di addizionali, tributi aggiuntivi, balzelli e bolli vari che un malinteso federalismo regionale (o un più sostanziale regionalismo scriteriato) ha prodotto e moltiplicato negli ultimi due decenni.

Stiamo parlando di aliquote per imposte che si aggiungono a quelle che si versano allo Stato centrale, ma che riconosciamo e consideriamo con difficoltà, celate e camuffate come sono nelle mille righe della dichiarazione dei redditi. Imposte che gravano in maniera pesante sui redditi di famiglie e imprese e che, quel che è peggio, sono il frutto di una duplicazione o triplicazione irresponsabile dei poteri pubblici. Senza che per giunta vi sia la possibilità di comparare il peso della stangata tra le differenti regioni e tra la miriade di comuni. Quantomeno per punire elettoralmente chi bastona di più.

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