Alleanze, Di Maio sceglie la Lega: “Li avete visti i sondaggi di Grasso?”
«Dobbiamo essere pronti a tutto e so che per noi sarebbe più facile allearci con Liberi e Uguali ma li avete visti i sondaggi? Li danno al 6%». Luigi Di Maio è sommerso di percentuali. Le studia assieme al suo staff ristretto, nella sede del comitato elettorale e mentre dà gli ultimi ritocchi alle liste per gli uninominali, ragiona di scenari post-elettorali. Previsioni e speranze si mescolano nei suoi ragionamenti: se il M5S andrà bene, prenderà il 30%-32%, «la convergenza di Leu non basterebbe, perché serve il 40% per avere una maggioranza».
Non resta che la prospettiva più praticabile, agli occhi del M5S: l’intesa con la Lega Nord, sul modello di Alexis Tsipras che per formare un governo in Grecia si è alleato alla destra di Anel. «Sono i numeri che ci costringono». E certo è diverso che sentire quasi contemporaneamente Beppe Grillo, mentre annuncia la separazione del suo blog dal M5S, dire che «anche quando sai che non ci sono i numeri, sai che è un’impresa impossibile, riuscire ad andare avanti è essere coraggiosi». Ma in fondo Grillo è uno che dice di voler andare «in cerca di visioni e di folli, di quell’utopia che ti porta ad andare avanti». È quello che era il M5S prima che Di Maio lo portasse nell’età adulta della politica, dove invece per andare avanti i numeri servono eccome. L’asse con la Lega non è proprio la proposta che i parlamentari del M5S si attendono, più propensi a guardare a sinistra che ai sovranisti di Matteo Salvini. Ma Di Maio garantisce che sarebbe un patto di breve durata, «un governo di scopo per realizzare pochi punti importanti per l’Italia».
A un mese e mezzo dalle elezioni, i sondaggi hanno convinto i 5 Stelle che al Nord è difficile scalfire il dominio leghista. A Sud la situazione è il contrario: «Sarà un boom, soprattutto in Sardegna e in Sicilia. Lo capisco anche da quanto ci cercano gli imprenditori».
Ma perché la Lega dovrebbe accettare di votare la fiducia al M5S? E perché, soprattutto, dovrebbe farlo se il centrodestra unito avrà una maggioranza autonoma? Di Maio ha un paio di argomenti con cui persuadere Salvini, e ruotano attorno al complicato rapporto con Silvio Berlusconi. Com’è noto l’accordo tra il presidente di Forza Italia e Salvini prevede che il partito della coalizione che prenderà più voti esprimerà il premier. Prima ipotesi: «Se Berlusconi arriva primo non darà molto spazio a Salvini» sostiene Di Maio con i suoi. Altra ipotesi, la Lega arriva prima: «Berlusconi metterà il veto su Salvini premier, magari usando il suo amico Roberto Maroni, per spaccare la Lega». Risultato: sarebbe negli interessi del leader leghista cercare un ’intesa con il M5S, «piuttosto che con un Berlusconi che va in Europa a dare rassicurazioni sulla subalternità dell’alleato nel futuro governo». L’ultima prova è la lite sullo sforamento del 3% del rapporto Debito/Pil. Di Maio sa che nella sfida all’Europa potrebbe più facilmente trovare un spalla in lui che in Berlusconi, anche se il leader 5 Stelle sta accentuando il proprio profilo europeista proprio per rassicurare Bruxelles in vista di un eventuale accordo con Salvini.
Ma basta guardare i venti punti del programma grillino per intuire quanto sia stato costruito in modo da attirare le convergenze di partiti tra loro agli antipodi. Sull’economia, però, al netto del reddito di cittadinanza, la genericità delle misure delineate aiuta a renderle appetibili per la Lega: la riduzione delle aliquote Irpef (non si dice come e quanto) potrebbe benissimo amalgamarsi con la flat tax che propongono i leghisti. «La manovra choc per le piccole e medie imprese» e «la riduzione drastica dell’Irap» non vogliono dire nulla senza cifre, ma fanno gola allo stesso elettorato della Lega. Poi la no-tax area, le 10 mila assunzioni nelle forze dell’ordine, una politica più muscolare su sicurezza e migranti («stop al business dell’immigrazione»), la cancellazione della Fornero sulle pensioni, e in politica estera i rapporti da ricostruire con Vladimir Putin: c’è tanto da offrire ai leghisti in cambio di un sostegno in Parlamento. Ma a una condizione, sulla quale Di Maio non arretrerà: «Il presidente Mattarella dovrà dare a noi l’incarico».
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