La strana coppia della rivolta
Abitano entrambi lo stesso spicchio di cielo politico, ed è solo naturale dunque che insieme agitino questo lembo di terra dove si svolgono le elezioni.
I due sanno molto bene il valore di una loro coalizione, e l’usano spregiudicatamente come uno dei migliori strumenti di pressione sulla opinione pubblica in questa campagna.
Inseguendosi e smentendosi, in un gioco a rimpiattino fatto di promesse e dinieghi, in modo da lasciare sempre un’ampia zona grigia da cui disimpegnarsi se necessario.
Tra la Lega e i Cinquestelle ci sono in effetti, aree di grande vicinanza. La più importante riguarda l’immigrazione, seguita dalla promessa di un drastico abbattimento delle tasse, e da un polemico rapporto con l’Europa. Tutti e tre gli obiettivi sono presentati con modi e linguaggi diversi: Luigi Di Maio, che in queste elezioni lavora soprattutto a vestire il manto della credibilità, parla forbito di «taxi del mare» quando si discute di accesso troppo libero delle nostre coste, e propone «una separazione immediata», già all’arrivo, fra coloro che hanno diritto di restare e coloro che non ne hanno, per procedere poi all’immediato rimpatrio. Al netto della difficoltà di decidere con velocità su temi così complessi come il diritto di asilo, il rimpatrio di massa e immediato è certamente il comune denominatore fra Movimento Pentastellato e Lega, anche se Matteo Salvini parla di espulsione senza peli sulla lingua.
Anche sulle tasse i due leader hanno uguali desideri, ma coniugazioni diverse. Di Maio entra nel merito, chiedendo abbattimento per le piccole imprese e per gli strati più poveri, ma attento a lasciare ampio spazio al rimprovero agli evasori e ai ricchi, con toni che fanno immaginare in un futuro persino una possibile patrimoniale. Salvini invece ha scelto la strada più semplice: la tassa unica, la flat tax, slogan popolare, semplice e mobilitante.
Sulla collocazione dell’Italia nelle relazioni con il resto del mondo Lega e M5S vanno invece davvero di pari passo: sono contro l’Europa che ha affamato con i suoi burocrati i nostri Paesi, amano Putin, e adesso, grazie a un giro perfetto della storia, anche Trump.
Alla fine, a scriverne così, la competizione fra queste due figure si rivela quasi sovrapposizione. I due in fondo lavorano sullo stesso segmento e gli stessi sentimenti di popolo.
L’alleanza appare dunque inevitabile. Se non fosse che nelle campagna elettorali val la regola che tutto è un gioco di specchi. E, anche nel caso di cui si parla, le assonanze paiono un fatto verbale, un tono, uno spartito musicale più che proposte comuni. Al di sotto dei toni ribelli e al di sopra delle affermazioni eccessive, la Lega e M5S hanno un rapporto con il potere molto diverso. E questa è una differenza essenziale.
La Lega non è affatto un partito contrario al governare. Fin dalla sua comparsa sulla scena politica si pose come il protagonista di una profonda rivoluzione sociale – indipendenza del Nord dalla Capitale, dunque rifondazione dello Stato – attuata attraverso la conquista del governo. Questo desiderio si rivelò così forte da prestarsi a spericolate manovra pur di arrivare a partecipare al processo decisionale – il ribaltone con cui nel 1996 Bossi abbandonò Berlusconi per dare la vittoria alla sinistra guidata da Prodi è uno degli esempi (mai dimenticati). Del resto la Lega ha sempre voluto il governo delle Regioni e da decenni ne è una forza decisiva. Al di là dei toni, la Lega non è dunque un partito anti-istituzioni.
I pentastellati nascono invece all’ombra della critica alle istituzioni, nutrita da sospetti, complottismi e letture economico/sociali venate di paranoia. I pentastellati sono i figli del dubbio sull’11 Settembre, del sospetto delle élite nato nelle pieghe del globalismo feroce, dello sbandamento indotto dalla rapida rivoluzione tecnologica e la combinata crisi sociale. I pentastellati sono entrati in campo per demistificare, svelare, e insomma «aprire come una scatoletta di tonno» le istituzioni che governano.
Insomma, la Lega vuole governare per difendere indipendenza territoriale, nazionalismo o piccole patrie, come si preferisce. Ha solo bisogno di avere alleati che rispettino questi punti del suo programma, sul resto può trattare.
Anche i pentastellati vogliono governare – specie ora che si avviano ad essere il primo partito – ma devono poter «giustificare» la loro scelta di guidare il Paese senza essere accusati di essersi svenduti, presso la loro base sociale. Dunque non possono allearsi con nessuna delle forze politiche tradizionali, e devono dimostrare di stare nelle istituzioni differentemente da chiunque altro ci sia stato prima.
Questa differenza fra leghisti e M5S è l’unica vera, sostanziale. Per forma forse ancora prima che per contenuti, non riconciliabile. I due uomini antisistema, i cui discorsi e percorsi oggi ogni tanto si incrociano, sono destinati dunque a non ritrovarsi alleati. Bensì in gara per la rappresentanza del malumore popolare, in una competizione infinita come quella dei «Duellanti» di Joseph Conrad.
LA STAMPA