Treno deragliato, la lettera del sopravvissuto: «Mi vergogno»
La testimonianza di chi si è salvato, e prova vergogna per non aver fatto abbastanza, ma anche per essere italiano: «A cosa serve essere straordinari nell’evitare gli errori se poi non li si riesce ad evitare?», chiede a Massimo Gramellini
«Caro Gramellini, sono un superstite del treno 10542, deragliato a Pioltello. Anche se ho scoperto che per Trenord si è trattato di uno “svio”, dopo che il web si era ribellato contro i primi annunci che parlavano di “inconveniente tecnico”. Leggo questo strano vocabolo quando sto per riabbracciare la mia famiglia alla stazione di Treviglio. Lì, dove l’odissea era cominciata e si stava concludendo, alzo lo sguardo su uno dei monitor e vedo l’annuncio che comunica lo “svio” di un treno, il mio treno.
Dapprima avverto un pugno nello stomaco che mi fa piangere tutte le lacrime che sono riuscito ad ingoiare durante le 4 ore precedenti. Poi rivivo tutto, istante dopo istante, e con la mente sono di nuovo sull’ultimo vagone del treno, nel momento in cui si sentono le mitragliate dei sassi contro il pavimento, e il fumo e le scintille e lo sbandamento a oltre 100km orari.
Una volta scappato dal finestrino, sento il silenzio. Anzi, le urla nel silenzio. A quel punto provo un moto di vergogna, perché mi sono preoccupato di mettermi in salvo, piuttosto che di accertarmi che le persone nel mio vagone stessero bene. Ma poi mi riprendo e ripercorro il tratto verso il terzo vagone, quello piegatosi e posizionatosi innaturalmente di traverso. Prima aiuto a far scendere alcune donne da un finestrino rotto, poi cerco di consolare una signora che urla dal dolore e dal terrore. Sto per entrare nel vagone, ma il controllore ci mette in guardia sui rischi dei cavi elettrici penzolanti. Qualcuno più coraggioso di me (e qui provo il secondo moto di vergogna) entra comunque e ci coordiniamo per alleviare le sofferenze di una donna che fatica a respirare. Io faccio la spola intorno a ciò che resta del treno perché voglio capire come essere d’aiuto, ma mi rendo conto subito della mia impotenza. Rispondo ai telefoni di quelli bloccati nelle lamiere, mento sull’arrivo dei soccorsi, faccio da stampella a chi ha non riesce a camminare.
Cerco di consolare chi sta peggio di me, ma sono consapevole cha la cosa non basta. Per fortuna arrivano i primi soccorsi e allora, spaventato, triste e frustrato, getto la spugna e mi lascio trasportare dagli eventi. Il resto è un capolavoro di organizzazione. Riapro gli occhi e sono di nuovo fuori dalla stazione di Treviglio, curato, consolato e scaldato, e realizzo che non serve a nulla essere straordinari nel rimediare agli errori se poi si continua a “sviare” la volontà di prevenirli. E anche qui mi viene il terzo, e più grande, moto di vergogna. Da Italiano».
Enrico Gelfi
Caro Gelfi, leggendola, sembrava di stare su quel treno assieme a lei. Ma, pur comprendendo l’emotività che li ha suggeriti, non mi lascerò “sviare” dai suoi eccessi di autocritica: il comportamento che ha tenuto in quei terribili frangenti è stato altruista e tutt’altro che vile. Condivido invece in pieno la sua ultima considerazione. Gli italiani stanno diventando bravissimi nell’affrontare le tragedie, ma rimangono scadenti nell’evitarle. [m.g.]
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