Dai selfie all’orrore: così si sono trasformati i volti degli studenti italiani in viaggio ad Auschwitz
Il viaggio di andata a fare selfie, quello di ritorno con gli stessi smartphone in mano per rivedere le fotografie dell’orrore; lo sguardo riflessivo, la voce bassa, poca voglia di scherzare. Si scambiano le impressioni: «… la montagna di capelli l’hai vista? … I letti… nemmeno le bestie vivono in quelle condizioni… Ma ci pensate? Noi così imbacuccati che moriamo dal freddo e loro solo con un pigiama addosso…».
C’è la stanchezza per un viaggio nel museo di Auschwitz-Birkenau durato due giorni, il 21 e il 22 gennaio, ma c’è incredulità per quello che hanno visto. Il contatto con il mondo reale, le pagine di storia studiate sui banchi di scuola dei rispettivi licei che si trasformano in filo spinato e oggetti da toccare, distanze da percorrere, gelo che entra nelle ossa.
Sono ragazzi fortunati, un centinaio, selezionati in tutta Italia grazie a un progetto del Ministero dell’Istruzione in collaborazione con l’Unione Comunità Ebraiche chiamato «Viaggio della memoria». Lo sanno e si promettono di raccontare quello che hanno visto ai compagni rimasti a casa. Da Cosenza a Sant’Anna di Stazzema, da Maratea a Bologna, da Vibo Valentia a Norcia passando per Roma. Otto scuole che durante l’anno si sono distinte per progetti legati alla memoria della Shoah, ragazzi rappresentanti di una generazione che fluttua tra fake news e revisionismo. «Leggi razziali a parte si può dire che Mussolini ha fatto anche cose buone per l’Italia» dice una di loro appena atterrati a Cracovia, nonostante tutto, nonostante i luoghi che si appresta a visitare, nonostante le storie, nonostante le testimonianze. Le risponde la ministra dell’istruzione Valeria Fedeli che accompagna la spedizione insieme al direttore del Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti: «Manca la conoscenza autentica, profonda, oggettiva della storia. Probabilmente lo avrà letto su un social, sentito in casa, per strada. Anche per questo ho voluto inviare una copia della Costituzione italiana in tutte le scuole, non solo per leggerne gli articoli ma per capire la storia che ha portato alla scrittura di quegli articoli. Questa ragazza dovrebbe conoscere meglio come Mussolini diventò capo del Governo».
Nei blocchi del Museo di Auschwitz cala un silenzio surreale, si sentono solo i passi di cento ragazzi che schiacciano la neve incrostata dal gelo. Nel campo di Birkenau gli spazi sembrano infiniti. Che sia una fabbrica della morte si vede ovunque, persino nella disposizione dei capannoni, di tipo industriale. La simmetria è inquietante. La voce resta in gola quando si tratta di commentare le cuccette dove erano stipati gli internati. «Non me lo aspettavo così questo posto, immaginavo solo una stanza vuota» dice incredula una studentessa. Gli fa eco un compagno che non riesce a distogliere gli occhi da quegli spazi angusti e fatica a trovare le parole giuste in preda a una ridda di sensazioni: «No, no, non riesco a immaginarlo. Anzi, non voglio proprio immaginarlo. Non è vita questa, non è possibile». Assistono alla cerimonia di commemorazione della comunità ebraica: la posa simbolica di una pietra lì dove c’era una delle camera a gas.
Il suono dello shofar, un corno di montone usato durante le celebrazioni religiose ebraiche, dà la stura alle lacrime. C’è chi abbassa la testa, chi chiude gli occhi, chi abbraccia un amico. Poco prima avevano ascoltato la testimonianza di Andra Bucci, sopravvissuta all’Olocausto insieme alla sorella Tatiana. Due anni di differenza, si somigliavano, la mamma le vestiva uguali e furono scambiate per gemelle. Buone per gli esperimenti di eugenetica di Josef Mengele, il dottore criminale nazista che sceglieva personalmente le coppie di gemelli all’arrivo dei convogli stracolmi di prigionieri.
«Mi sento colpevole di tutto – racconta Bucci – ma più di tutto mi sento colpevole per non avere abbastanza memoria. Ero piccola quando arrivai nel campo di concentramento. Mia mamma, anche molti anni dopo la liberazione, non ha mai voluto che sapessi cosa fosse successo a lei e io sento il dovere di ricordare tutto». Zakhòr, «ricorda», si chiama anche l’invocazione declamata sul luogo dello sterminio. «Ricordare» è pure il verbo più usato dai ragazzi sull’aereo che li riporta a Fiumicino. «Ho visto il terrore con i miei occhi, ho visto la mancanza di dignità, ecco cosa dirò di aver visto ai miei amici – chiosa uno studente calabrese -. Mi ha cambiato la vita questo viaggio. Ho imparato che ci vuole umiltà, rispetto per chi non conosci ma occorre anche la sapere la storia e non dimenticarla».
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