Gli Usa, il dollaro e i giochi pericolosi

È raro che un ministro del Tesoro si lasci andare a valutazioni sulle monete. Ancor più raro che lo faccia un presidente. E se a farlo sono gli americani Donald Trump e Steven Mnuchin, questo si tramuta in onde lunghe che influenzano e modificano l’andamento delle economie mondiali. Non ingannino i piccoli aggiustamenti, le precisazioni e a volte il modo folkloristico col quale sono arrivate le dichiarazioni. L’amministrazione americana sta giocando una partita più seria di quanto si pensi. E i cui effetti ci riguardano molto da vicino.

Se ne sono accorti subito i mercati. Di fronte alle parole del capo del Tesoro americano Mnuchin, che non vedeva come rischio immediato per gli Stati Uniti un dollaro debole, i mercati finanziari hanno puntato sull’euro spingendolo al rialzo e a un cambio vicino a 1,25 dollari. Il livello più elevato da tre anni a questa parte. Tanto da costringere prima Mnuchin a ribadire che l’interesse dell’America è per un dollaro forte. Poi Mario Draghi a chiedere che vengano rispettati i patti.

Quei patti, scritti e non, che prevedono che le amministrazioni, i governi, non si esprimano sulle valute. Non tentino di influenzare i cambi per favorire la propria competitività. Una moneta debole agevola sicuramente le esportazioni delle aziende statunitensi. Così come un euro forte penalizza quelle delle imprese dei Paesi dell’Unione.

Altro che scaramucce verbali. Donald Trump si muove in modo atipico sullo scenario economico e politico mondiale. Ma pare avere chiari gli obiettivi. Quando continua a sottolineare la necessità di un «commercio equo-reciproco», sicuramente pensa all’alto deficit, a quella differenza tra quanto le aziende e lo Stato americano vendono all’estero e quanto comprano dall’estero, differenza che è estremamente elevata. Nel solo mese di ottobre scorso il disavanzo americano era di 48 miliardi in crescita dell’8,6 per cento.

Ed è quell’«insostenibile deficit con la Cina» come ha detto Trump settimana scorsa, che probabilmente ha spinto il presidente americano a varare dazi su prodotti come lavatrici e pannelli solari provenienti da Pechino. E che ha fatto gridare ancora una volta al ritorno del protezionismo americano. È chiaro che i dazi alterano economie e mercati. E che danno benefici, per quanto limitati e nel breve periodo, alle aziende americane.

Semmai il rebus potrebbe essere un altro. Perché il dollaro si indebolisce? La crescita Usa c’è ed è rilevante, sebbene inferiore alle previsioni degli analisti. Wall Street non è mai andata così bene ed è ai massimi di sempre. Tanto che la Federal Reserve si appresterebbe a nuovi rialzi di interesse. Tutto questo, la teoria spiega, dovrebbe portare a un rafforzamento automatico della moneta americana. Sta accadendo il contrario. Il biglietto verde continua a scivolare.

Trovare risposte non è facile. C’è chi pensa che la nuova Federal Reserve di Jerome Powell sia meno intenzionata a un rialzo dei tassi che frenerebbe la marcia verso una «America grande ancora». E chi invece crede che con un Trump meno impegnato sul fronte della globalizzazione e rivolto soprattutto ai suoi elettori, il dollaro stia perdendo quella caratteristica di valuta di riserva che ha sempre avuto.

L’incertezza in economia è la situazione peggiore. Un dollaro indebolito per ragioni apparentemente sconosciute preoccupa ancora di più. Piccolo inciso doveroso e relativamente tranquillizzante sull’Italia grande Paese esportatore: le aziende tricolori hanno un mercato estero che per il 66% è rivolto all’interno dell’Europa e solo per il 9% verso gli Stati Uniti. Ma l’incertezza generale non ci agevola certo. A meno che si smetta di pensare a Trump e all’attuale amministrazione americana come solo una pittoresca rappresentazione di quelle passate. Le parole di Mnuchin, le dichiarazioni del presidente americano di ieri a Davos sulla possibile riconsiderazione della partecipazione Usa al Trans Pacific Partnership e sull’«America prima ma non sola», indicano forse un cambio di paradigma reale e perseguito con tenacia dagli Stati Uniti. Del quale cominciare a prendere atto senza presunzioni fuori luogo.

CORRIERE.IT

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