Gli alleati necessari per gli Usa
Le parole di Donald Trump a Davos – «l’America anzitutto non è un’America isolata» – appartengono alla categoria delle affermazioni ingannevoli e poco tranquillizzanti. L’isolazionismo non è estraneo alla storia degli Stati Uniti. Fu isolazionista Washington, il padre della nazione, quando, congedandosi dalla vita pubblica, raccomandò ai suoi connazionali di non lasciarsi coinvolgere nelle beghe degli Stati europei. Erano isolazionisti i senatori che rifiutarono di ratificare i trattati di Versailles e non permisero al loro Paese di aderire alla Società delle Nazioni (un’organizzazione concepita dal loro presidente). Era isolazionista il Congresso che avrebbe impedito a Franklin D. Roosevelt di entrare in guerra, alla fine del 1941, se l’attacco giapponese di Pearl Harbor non avesse suscitato la rabbia e l’indignazione del popolo americano. Vi sono tracce di isolazionismo anche nelle tentazioni unilateraliste a cui l’America ha spesso ceduto nel corso della sua storia.
Ma lo Stato di cui Trump è diventato presidente dopo le elezioni del 2016 è molto diverso dall’America di allora. È un Paese che nel corso degli ultimi settanta anni ha consolidato la propria egemonia costruendo una fitta rete di alleanze, associazioni, partenariati, istituzioni supernazionali e responsabilità condivise. Crede davvero Donald Trump di potere fare l’America «great again» (nuovamente grande) se rinuncia a questi strumenti?
Il documento annuale sulla sicurezza nazionale, pubblicato dall’attuale presidenza nello scorso dicembre, dimostra che Trump e il suo stato maggiore hanno della sicurezza americana una concezione globale; e dal testo emerge continuamente la sensazione che gli Stati ambiziosi e poco inclini ad accettare la leadership americana debbano essere trattati come potenziali nemici.
È difficile immaginare che un uomo animato da questi sentimenti voglia rinunciare alle numerose basi militari (parecchie decine nei cinque continenti) che ha ereditato dai suoi predecessori. Ma queste basi sono state create in un’epoca in cui il Paese ospitante e il Paese ospitato avevano interessi comuni e, nelle grandi emergenze, gli stessi nemici.
Possono avere interessi comuni, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, se Trump continuerà a trattare le regole multilaterali del commercio internazionale come le sbarre di una prigione che il suo Paese deve spezzare? Trump risponderebbe, come a Davos, vantando le ricadute della sua riforma fiscale e sostenendo che quando l’America cresce, tutti crescono. Ma nella realtà tutti crescono insieme soltanto se ogni Paese, perseguendo i propri obiettivi, è consapevole delle esigenze di coloro con cui deve raggiungere un’intesa. Come negli anni Trenta il protezionismo può soltanto generare nuovi protezionismi.
In ultima analisi il problema è anzitutto americano. Tocca agli elettori degli Stati Uniti decidere se dietro le strategie di Trump non si nasconda la prospettiva di un progressivo declino del loro Paese e se non sia interesse dell’America correggere la rotta.
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