Resa dei conti dopo il 4 marzo, il piano anti Lega di Berlusconi
Berlusconi non ha un «Piano B»: vuole vincere e basta. Alla radio, dove s’è fatto vivo per mostrarsi in salute, nega che ci sarà bisogno di larghe intese «con M5S o con altri». Anche in privato, giurano i suoi, il Cav rifiuta di chiedersi che cosa succederebbe se la maggioranza assoluta nelle due Camere venisse mancata, di poco o di tanto. Sondaggi alla mano, l’obiettivo gli sembra alla portata; per cui, fino al 4 marzo, l’ex premier fingerà di non udire quanto va dicendo Salvini sull’Europa, sulla Fornero, sui dazi e sui vaccini. Non gli sembra questo il momento di litigare. Ma dal 5 marzo in avanti, se la vittoria dovesse sfuggire, l’atteggiamento cambierebbe da così a così.
Chi conosce a fondo il personaggio, ne immagina l’amarezza, l’incapacità di farsene una ragione qualora la chance fosse gettata al vento. E dal momento che l’autocritica ad Arcore non è di casa, tra gli amici veri la previsione è una: Berlusconi ne darebbe l’intera colpa a Salvini. Ai suoi eccessi verbali. Ai continui «distinguo». A una competizione spinta parecchio oltre la fisiologica concorrenza imposta dal voto proporzionale. Prenderebbero corpo tutti i fantasmi, compreso quello secondo cui la Lega preferisce perdere vincendo, piuttosto che vincere le elezioni perdendo il «derby» con Forza Italia. Ciò che nel nome della realpolitik viene per ora tollerato, dopo un mancato trionfo verrebbe addebitato all’alleato leghista. Sul quale penderebbe l’accusa di tradimento. E le «corna», si sa, sono giusta causa per un divorzio.
Fedeli in Parlamento
Nel caso di mancata vittoria, insomma, tanto Silvio quanto Matteo avrebbero parecchio da rinfacciarsi. Ciascuno si sentirebbe libero di restare insieme, o forse no. Entrerebbero in gioco mille variabili che nemmeno un computer quantistico potrebbe calcolare. Di sicuro, Berlusconi non sarebbe oggi così nel vivo, a rischio delle coronarie, se non avesse in testa un traguardo, come sua abitudine, grandioso. Forse un incarico mondiale, grazie all’amicizia con Putin. O magari presidente della Repubblica quando Mattarella scadrà, nel 2022. Se questo è veramente il sogno, dopo le urne Silvio vorrà restare centrale, determinante, indispensabile, riverito come un totem a destra e a sinistra. Escluso che voglia legarsi mani e piedi a Salvini, restandone schiavo. Qualche precauzione Forza Italia sembra averla presa. Basta dare un’occhiata alle liste «azzurre»: nomi illustri non ce ne sono, colpisce il grigiore. Ma chi ha seguito passo passo la gestazione, pilotata da Antonio Tajani e dall’avvocato Niccolò Ghedini, prevede che verranno eletti gruppi parlamentari perfettamente in linea col Capo, gente disposta a seguirlo in capo al mondo, di certo non subalterna a Salvini o a un ipotetico «partito del Nord».
Per molti candidati eletti coi voti della Lega, separarsi dopo il voto sarebbe un tormento; però tornare di corsa alle urne, dopo essere stati appena eletti e aver speso un occhio per la campagna, risulterebbe perfino peggio. La gran parte sarebbe pronta a nuove avventure, con o senza Salvini. Altro segnale di quanto bolle in pentola, anche se nessuno ne fornirà le prove: Pd e Forza Italia hanno adottato una sorta di desistenza in vari collegi nel Centro e nel Sud. Cedendo il passo al meglio piazzato, pur di non far vincere i Cinquestelle. L’obiettivo è non farsi troppo male, con il retropensiero già orientato al «dopo».
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