Perché i banchieri non pagano mai le proprie colpe

di Milena Gabanelli e Massimo Gaggi

Uomo più odiato d’America dopo la bancarotta del suo istituto che innescò un crollo finanziario planetario, Dick aveva sempre suscitato timore dentro la Lehman dove era soprannominato «the gorilla» per la brutalità dello stile manageriale. Fuld è stato a lungo inquisito per la sua gestione spregiudicata della banca, arrivata a investire in attività apparentemente redditizie ma molto rischiose somme 30 volte superiori al capitale liquido a sua disposizione. Sono stati versati fiumi d’inchiostro sulla scelta folle di scommettere in modo massiccio sui mutui subprime, quelli sottoscritti da proprietari di immobili con situazioni patrimoniali assai precarie, candidati all’insolvenza.

 

Da uomo-record di Wall Street a peggior ad della storia

Fuld, che nel 2006 era stato nominato miglior Ceo finanziario d’America da Institutional Investor, la bibbia degli investitori, nel 2009 precipitò, secondo la classifica della rivista Portfolio, nella casella di «peggior amministratore delegato di tutti i tempi» per i suoi affari sciagurati e anche per una serie di errori madornali commessi negli ultimi anni di vita della Lehman. Come il rifiuto di aprire le porte alla Berkshire Hathawy di Warren Buffett, il celebre investitore soprannominato «l’oracolo di Omaha», che aveva mostrato una certa disponibilità a entrare nel capitale della banca in difficoltà.

Dopo il crack di Bear Stearns, la più debole delle 5 grandi banche d’investimento americane, Fuld si era reso conto di essere in pericolo e si era messo a cercare nuovi capitali. A quel tempo, siamo nel marzo del 2008, la Federal Reserve, la Banca centrale americana, riuscì ad evitare una tempesta finanziaria spingendo la JPMorgan Chase, la più solida delle banche americane, ad assorbire la Bear Sterns, di fatto fallita, prima che ne emergesse l’insolvenza. Consapevole che anche il suo istituto era eccessivamente esposto, Fuld iniziò una serie di sondaggi.

Warren Buffett, il salvatore respinto

Ma quando Buffett ipotizzò un finanziamento di 3 miliardi di dollari in cambio di un nuovo tipo di azioni privilegiate che dovevano dare un rendimento del 9 per cento, lui rifiutò l’offerta, convinto che, anche se in difficoltà, la Lehman avesse un valore molto superiore a quello che le veniva attribuito dal finanziere del Nebraska. Di certo un errore: quei 3 miliardi sarebbero stati preziosi e l’impegno diretto del grande investitore avrebbe, se non rassicurato, almeno ridotto l’agitazione dei mercati. A quel punto Buffett spostò la sua attenzione su Goldman Sachs che evitò di essere risucchiata nel vortice della Lehman anche grazie ai 5 miliardi di dollari da lui investiti in questo istituto.

Potrà apparire paradossale, ma quell’errore, se ha rafforzato il giudizio negativo sulle capacità manageriali di Fuld, ha anche contribuito a salvarlo da un’incriminazione penale. Nei nove anni trascorsi dal crollo, il banchiere ha dovuto affrontare vari giudizi in sede civile per la bancarotta di Lehman, ma non gli è mai stata contestata una vera e propria frode. Per la legge americana, infatti, la truffa presuppone la consapevolezza, da parte di chi la commette, delle conseguenze disastrose delle sue azioni. Fuld, invece, fino all’ultimo momento è sempre stato convinto di avere le risorse per evitare il tracollo della banca e il rifiuto del salvagente lanciato da Buffett ne è una prova.

Bank of America molla Fuld e decide di tenere a galla Merrill Lynch

Ma, mese dopo mese, gli squilibri di Lehman continuavano a peggiorare mentre i possibili «cavalieri bianchi» (istituti che, secondo Fuld, avrebbero potuto intervenire a sostegno della banca) si allontanvano al galoppo, scomparendo oltre l’orizzonte. In quel maledetto week end di fine estate, lo spregiudicato banchiere, ormai consapevole di essere finanziariamente con le spalle al muro, era ancora convinto di poter salvare Lehman vendendola a Bank of America. Il 15 settembre la trattativa, condotta in modo frenetico per annunciare l’accordo prima della riapertura dei mercati, era ormai quasi conclusa quando, improvvisamente, con un dietrofront maturato nell’arco di poche ore, questo istituto decise, invece, di salvare Merril Lynch, l’altro grande malato di Wall Street. Con JPMorgan già appesantita dal salvataggio di Bear Stearns fatto pochi mesi prima e Citigroup troppo debole, rimase in campo solo la britannica Barclays che, però, preferì aspettare la bancarotta dell’istituto di Fuld per acquistare successivamente, a condizioni più vantaggiose, i pezzi di attività di Lehman che aveva interesse a rilevare.

Rimaneva l’ultima spiaggia, quella dell’intervento pubblico, ma il ministro repubblicano del Tesoro Henry Paulson (siamo negli ultimi mesi della presidenza di George W. Bush) si rifiutò di nazionalizzare la banca, ritenendo che il mercato fosse in grado di sopportare la bancarotta di un gruppo che aveva 639 miliardi di dollari di asset patrimoniali. Non fu così: si scatenò uno tsunami finanziario con conseguente gelata planetaria del credito che tre giorni dopo costrinse il Tesoro a fare col gruppo assicurativo Aig quello che non aveva fatto con Lehman — un salvataggio pubblico — per evitare una micidiale reazione a catena.

Responsabilità enormi ma senza reati penali

Fuld si è sentito vittima di una sorta di gigantesco gioco finanziario delle tre carte: illuso e poi abbandonato dai suoi colleghi, mentre l’ombrello protettivo delle autorità monetarie, sempre aperto in passato in circostanze analoghe, stavolta rimase ben chiuso. Le sue responsabilità sono comunque enormi: simbolo di un’incredibile era di avidità e stupidità a Wall Street, Fuld aveva creato un sistema di gestione della banca nella quale aveva passato tutti i 40 anni della sua vita professionale basato sul culto della personalità: la sua. Presidente e amministratore delegato di Lehman, questo figlio di una famiglia di banchieri ebrei di New York è stato un padre padrone con un controllo assoluto sull’istituzione, salvo alcuni poteri esecutivi da lui delegati al braccio destro Joe Gregory, soprannominato dagli altri dirigenti della banca «Darth Vader» per la pesantezza dei suoi interventi. Insomma, una sorta di monarca medievale che non voleva consiglieri ma cortigiani: così è stato azzerato lo spazio per le riflessioni critiche. Quando un investitore, David Einhorn di Greenlight Capital, cominciò a criticare le scelte di Lehman e la sua scarsa trasparenza, i vertici della banca, ossessionati dalla segretezza, pensarono di mettere un investigatore privato alle costole del contestatore e di setacciare anche la sua spazzatura.

Fuld ha sempre respinto ogni accusa. Nelle audizioni parlamentari poco dopo il crollo di Wall Street e nel primo discorso tenuto in pubblico nel 2015, dopo anni di silenzio, si è autoassolto, individuando molti altri responsabili per l’assassinio di una gloriosa istituzione finanziaria con 158 anni di storia: il governo, reo di aver di aver abbassato in misura eccessiva gli standard per l’erogazione del credito, i proprietari di case, accusati di aver «usato i loro immobili come dei bancomat», visto che rifinanziavano i mutui ottenendo nuovi prestiti garantiti sempre dalla stessa proprietà. E poi, ovviamente, le autorità monetarie, colpevoli secondo lui di aver lasciato fallire Lehman mentre in passato erano sempre intervenute in crisi analoghe per evitare crolli che avrebbero potuto provocare incontrollabili tempeste finanziarie: proprio quello che accadde nel settembre 2008.

Fuld, Pandit, Fleming: la nuova vita dei reduci del disastro 2008

Insomma, Fuld ha una bella faccia tosta a difendere il suo operato, ma non ha tutti i torti quando afferma di essere stato solo una ruota di un folle ingranaggio: le altre banche che hanno evitato il destino della Lehman non si erano comportate in modo molto diverso. E quella di Fuld, per quanto gestita come una monarchia medievale, era amata dai dipendenti che godevano di trattamenti piuttosto generosi. Tanto che, anche dopo la bancarotta, molti di loro tornarono a lavorare senza essere pagati: per gestire le procedure fallimentari. Dick, comunque, è afflitto da qualche amnesia: dimentica, ad esempio, che grazie al «folle ingranaggio» che oggi denuncia lui riuscì a incassare in pochi anni compensi per oltre mezzo miliardo di dollari.

Difficile sapere quanto gli è rimasto dopo aver pagato gli indennizzi per le cause civili. Così come è difficile misurare l’immane distruzione di ricchezza seguita all’infarto del sistema finanziario mondiale. Il Gao, l’ufficio contabile del governo americano, ha stimato un impatto complessivo sulla sola economia Usa di ben 22 mila miliardi di dollari. Altri istituti hanno indicato cifre variabili tra i 6 mila e i 14 mila miliardi di dollari per la sola perdita di fatturato negli anni della recessione: 7,5 milioni di posti di lavoro distrutti e un calo del 3,5% della produzione mondiale.

Passato qualche anno, normalizzata la situazione dell’economia americana, oggi l’ormai 72enne Fuld può tornare sul palcoscenico della finanza dopo aver lavorato per anni dietro le quinte come consulente. Molti lo troveranno scandaloso, ma lui non è l’unico banchiere di quella stagione disastrosa ad essere tornato in attività: Vikram Pandit, che lasciò la guida di Citigroup quando la banca era in grave crisi, ora guida Orogen Group mentre Greg Fleming, il presidente di Merrill Lynch che riuscì in extremis a convincere Bank of America a salvare la sua banca anziché Lehman, oggi gestisce i 100 miliardi di dollari di Rockefeller Capital Management.

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