Ora niente sia come prima

Macerata, Alabama. Forse per la prima volta nella nostra storia recente vediamo materializzarsi anche da noi l’incubo del terrore razzista. Non c’era infatti altro criterio se non quello razziale, ieri mattina, nella scelta delle vittime di Luca Traini: sparare a chiunque non fosse bianco. A ragione si era inciso un simbolo neonazista sulla tempia, era lo stesso criterio con il quale le Ss rastrellavano gli ebrei, o il Ku Klux Klan impiccava e bruciava i neri: ripulire la società da esseri ritenuti inferiori e impuri per mettere a posto tutto ciò che non va, e ripristinare l’ordine di un passato mitico e immaginato.

Dobbiamo esserne spaventati. È un salto all’indietro della nostra civiltà che forse si poteva temere, ma che fino a poco tempo sarebbe stato inimmaginabile. Ora è accaduto, e dunque può accadere ancora. Dobbiamo aprire gli occhi su che cosa sta diventando l’Italia. E non a senso unico.

Abbiamo innanzitutto la colpa di aver accettato senza preoccuparcene troppo lo sdoganamento del discorso di odio come forma abituale di polemica culturale e politica.Le «parole ostili», la terminologia di guerra, gli stupri e le decapitazioni virtuali, la contrapposizione amico-nemico dominano ormai pezzi interi del dibattito pubblico, senza reazioni, nell’acquiescenza generale. Ne è testimonianza l’uso che ormai si fa correntemente della parola «stranieri»: con essa un tempo si intendevano i turisti, oggi invece ingloba le categorie di «nero», «islamico», «immigrato», «clandestino», senza distinzione tra di loro ma esclusivamente in quanto opposte a «italiano».

Il criterio razziale si è insomma insediato tra noi, e ovviamente può sconvolgere la mente dei più deboli, dei più fanatici, eccitando una violenza da Taxi Driver tra i tanti «angry white men», giovani bianchi incazzati, che vivono anche nelle nostre città e nella nostra provincia.

Basta dunque scherzare col fuoco. La nuova destra leghista ha il dovere di separarsi radicalmente, più di quanto non abbia fatto in questi anni, dai residui dell’ideologia fascista e dalle farneticazioni sulla «razza» che hanno trovato nelle ondate migratorie l’habitat ideale per risorgere dalle ceneri della storia. Sappiamo benissimo che la felpa di Salvini non è l’orbace, ma il leader leghista deve sapere altrettanto bene che per lui non ci potrà mai essere nessuno spazio al governo di una grande nazione europea finché rimarrà la benché minima ambiguità sul tema del razzismo, nel suo movimento e in chi ci gira intorno. La coscienza democratica del Paese non lo permetterebbe, perché le ripugna quanto ha visto accadere ieri.

Bisogna però aprire gli occhi anche su altro. E cioè sul fatto che il modo caotico, non controllato, illegale, con cui i flussi migratori hanno «invaso» pezzi delle nostre città e delle nostre terre, ha provocato risentimento e rancore anche tra la gente perbene, magari un po’ tradizionalista ma nient’affatto razzista; non abbastanza ricca da godere dei vantaggi della società multietnica che le «anime belle» spacciano come destino ineluttabile della nazione, ma abbastanza operosa per pretendere con buon diritto più ordine, più rigore, più rispetto, più decoro, più sicurezza su un treno regionale o nel giardino pubblico di fronte a casa.

Macerata è la città dove una ragazza di diciotto anni che avrebbe potuto essere nostra figlia è appena stata uccisa e fatta a pezzi presumibilmente da uno spacciatore di origine nigeriana, ma è anche la città raccontata in un lungo reportage del Guardian come uno degli snodi cruciali in cui si combatte in Europa la battaglia per fermare lo sfruttamento delle ragazze africane vendute sulle strade. Tolleranza vuol dire anche tollerare questo? Ovviamente no. Bisogna allora che lo Stato per la sua parte e i media per la nostra lo dicano a voce talmente alta da farlo sentire anche a coloro che, lontani e frustrati, credono di essere stati traditi, si sentono soli, e perciò covano sentimenti di vendetta.

Ecco perché ci sembra infantile, oltre che pericoloso, cercare «mandanti morali» della tentata strage di Macerata in questo o quell’avversario, come ha fatto ieri lo scrittore Saviano incolpando Matteo Salvini. Chi condanna l’identificazione tra immigrato e delinquente dovrebbe saper anche discernere tra la polemica contro l’immigrazione e la violenza contro gli immigrati. Ed ecco perché abbiamo trovato le prime reazioni del mondo politico nettamente al di sotto della gravità di quanto è successo. Ognuno preoccupato di riaffermare le sue ragioni, di prendersi una rivincita polemica; nessuno disposto a riconoscere le buone ragioni dell’altro e a chiedere umilmente scusa per averle sottovalutate. Perché se siamo arrivati a questo punto non c’è un solo politico italiano che possa dire di aver avuto sempre ragione, o che oggi sappia dirci come uscirne.

CORRIERE.IT

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