L’Italia che non riesce a mantenere le promesse

Finito il tormentone delle liste, il dibattito elettorale si sposterà ora verso i programmi. Dovrebbe essere la parte più interessante e rilevante della campagna, quella in cui si affrontano temi che toccano nel vivo i nostri interessi e valori. E in queste elezioni la posta in gioco è particolarmente elevata.

Nell’ultimo mese i vari leader hanno promesso mari e monti. È comprensibile che molti cittadini nutrano adesso seri dubbi sulla loro credibilità programmatica. Non vale la pena approfondire più di tanto, si pensa: quelle dei partiti sono solo promesse da marinaio. Dobbiamo però resistere alla rassegnazione. La democrazia serve a selezionare non solo i nostri rappresentanti, ma anche le loro idee.

Nella maggior parte dei paesi gli impegni presi con gli elettori non sono parole inconcludenti, ma contano davvero. Uno studio recente, condotto da un’equipe internazionale, ha raccolto l’insieme delle promesse concrete fatte dai partiti di 12 Paesi negli ultimi 20 anni e le ha confrontate con le misure adottate dai governi dopo le elezioni. Il risultato è che più del 60% degli impegni sono stati effettivamente mantenuti. Il Paese con il tasso più alto di attuazione è il Regno Unito (il 90%), seguito dalla Svezia (80%). Ma anche Portogallo (78%) e Spagna (72%) se la cavano molto bene. La serietà dei partiti non dipende dalla latitudine.

I casi più virtuosi sono quelli in cui c’è un partito che conquista la maggioranza assoluta e governa da solo. Come sappiamo, non accade più molto spesso di questi tempi, neppure in Gran Bretagna. I governi di coalizione hanno tassi di attuazione più ridotti. Ad esempio la Germania si attesta al 62%. E giocano un ruolo anche la durata in carica e il tipo di coalizione. L’instabilità e la presenza al governo di partiti «populisti» di centro-destra si associano a tassi di attuazione inferiori alla media: è il caso dell’ Olanda (57%) o dell’ Austria (50%).

Nei governi sostenuti da più partiti conta molto la Presidenza del Consiglio. Chi la controlla riesce a mantenere una quota più alta dei propri impegni. Infine è importante la presenza di procedure e meccanismi decisionali che limitino i poteri di veto, ad esempio quelli delle regioni.

Come da copione, l’ Italia ha il tasso di attuazione più basso di tutto il campione: 45%. Solo il governo Prodi (1996-98) e quello Berlusconi II (2001-2006) hanno fatto meglio, superando il 50%. Sempre fascia bassa ma almeno decente, fra l’Irlanda e l’ Olanda.

Se il quadro è questo, dopo il voto del quattro marzo si profilano purtroppo tutte le condizioni per una tempesta perfetta. Sarà difficile formare un governo (quasi sicuramente di coalizione),definire una linea programmatica condivisa e coerente e, soprattutto, tradurla in pratica. Oltre a una lunga tradizione di instabilità, frammentazione e a un assetto istituzionale pieno di punti di veto, sconteremo gli effetti di una legge elettorale disastrosa.

Allora ha ragione chi pensa che sia inutile dibattere sui programmi? Assolutamente no. Proprio perché c’è il rischio di tempesta perfetta, dobbiamo considerare con molta attenzione le proposte dei partiti, valutandole sotto due prospettive. Chiamerei la prima «innovatività sostenibile»: impegni al cambiamento, anche incisivo, purché precisi nell’imputazione dei costi. La seconda è invece la «responsabilità di sistema»: parole chiare sui temi del debito pubblico, dell’euro, della politica estera e di sicurezza. E anche sull’immigrazione, l’ ordine pubblico e lo stato di diritto. Come dimostrano i fatti di Macerata, vi è il pericolo di orribili rigurgiti xenofobi e illiberali, persino di esplosioni di violenza. Occorre fare ogni sforzo per stanare i partiti su questi due fronti, costringendoli in particolare a fornire garanzie su quello della responsabilità.

Negli ultimi anni alcuni Paesi hanno attraversato acque tempestose, addirittura senza governi legittimati dal Parlamento: pensiamo al Belgio, alla Spagna o all’ Olanda. La stessa Germania non è ancora uscita dal caos post-elettorale. Sbaglieremmo tuttavia a pensare che, in fondo, la stabilità non sia così importante, che economia e società possano funzionare anche senza «la politica». In quei Paesi, la difficoltà a formare un governo non ha provocato danni perché i partiti maggiori sono riusciti a tenersi lontano dall’avventurismo. E, soprattutto, a mantenere ben salde le ancore dell’Europa e della democrazia liberale.

CORRIERE.IT

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