L’astuta offerta di dialogo del leader nordcoreano
Cominciano in uno stadio frigorifero, in un villaggio sconosciuto al mondo e fino a poco tempo fa remoto anche per i sudcoreani di Seul. Ma queste Olimpiadi di Pyeongchang stanno offrendo, oltre alle medaglie sportive, prospettive politiche sulle quali è giusto riflettere, perché in gioco può esserci la pace dopo un negoziato per maratoneti della diplomazia o la guerra entro pochi mesi. Quello che sta accadendo dovrebbe convincere anche i puristi delle discipline alpine che lo sport a questi livelli si fonde con la politica, allo stato di soft power o di scontro duro.
La cerimonia inaugurale è oggi, ma questa partita all’ombra della bandiera con i Cinque cerchi si sta giocando da molti giorni. E bisogna dire che fino ad ora la sta conducendo il nordcoreano Kim Jong-un, un uomo che non sembra avere il carattere dello sportivo (al suo Paese può vincere solo lui e chi lo sfida finisce male). Eppure Kim è stato veloce e sorprendente a Capodanno, quando ha annunciato di avere il bottone nucleare sulla scrivania e al tempo stesso ha rivolto ai sudcoreani pronti a ospitare le Olimpiadi a Pyeongchang una proposta di dialogo. Un’offerta che non si può rifiutare, dicevano i cattivi dei film e Kim è un attore con i missili e le testate nucleari. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha accettato e ha concordato l’arrivo dei nordcoreani ai Giochi del suo Paese, nonostante tutti i tempi di iscrizione fossero scaduti da mesi. Kim aveva utilizzato quei mesi per lanciare nuovi missili e provare armi nucleari capaci di colpire le città degli Stati Uniti.
Moon ha assecondato le richieste più o meno bizzarre del nemico: ha ottenuto da Washington il rinvio delle esercitazioni militari congiunte con gli americani, che servono a tenere gli eserciti al passo con la minaccia in evoluzione; ha accolto un paio di battaglioni di majorette, cantanti, ballerine, lottatori di taekwondo, qualche sciatore e hockeysta di incerte capacità, che Kim si è degnato di spedire al Sud. Moon Jae-in insegue la soluzione pacifica della questione, dopo una guerra fratricida (1950-1953), settant’anni armati in attesa di un nuovo attacco, ora l’incubo nucleare. Il presidente ha sacrificato anche parte del consenso interno dei suoi elettori al progetto di dialogo con la Nord Corea, perché ai giovani sudcoreani la riunificazione non interessa, non vogliono pagare il costo di un’operazione gigantesca di riassorbimento di un Paese arretrato economicamente e indottrinato politicamente nel culto dei Kim. Ma se un politico vuole essere statista deve rischiare anche l’impopolarità per realizzare quello in cui crede.
La Casa Bianca sembra arroccata, quasi impreparata a giocare la partita. Eppure sono proprio gli americani ad aver inventato il motto sportivo «quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». Il vicepresidente americano Mike Pence scende nell’arena dello stadio olimpico per l’inaugurazione e qualcuno ha ipotizzato un incontro o un colloquio addirittura con la sorella di Kim Jong-un, che gli siederà a pochi posti di distanza forse. Pence invece ha sostenuto che lo scopo della sua presenza a Pyeongchang è contrastare la propaganda nordcoreana e svelare la realtà di un regime in cui il popolo è schiavo. Parlare di diritti umani è nobile e importante, perché la Nord Corea non è solo minaccia nucleare, ma anche repressione brutale, campi di concentramento e malnutrizione causata dall’impiego delle risorse migliori nella corsa alle armi. E poi, prima di avviare un negoziato, è giustificato alzare la richiesta: non solo denuclearizzazione ma anche gente che soffre. Però il rischio è che l’America di Trump sia davvero convinta che questo inizio di partita sia solo una sceneggiata e per paura di cadere in un tranello nordcoreano perda l’occasione. Bisogna ricordare che da quando è al potere, e sono passati ormai sei anni abbondanti, un centinaio di missili e quattro esplosioni nucleari, Kim Jong-un non aveva mai accettato di dialogare con la Sud Corea. Ora invece ha mandato anche la sorella a parlare con Moon, e si tratta della prima volta in assoluto che un membro della Dinastia Kim varca il 38° Parallelo, magari con un messaggio pacifico.
Se poi, dopo aver ottenuto la medaglia per la furbizia tattica, questa partita diplomatica di Kim Jong-un si dimostrerà dopata, si farà sempre in tempo a revocare ogni premio e a sostituirlo con sanzioni ancora più punitive e anche con un «pugno che fa sanguinare il naso», come dicono gli strateghi del Pentagono che studiano bombardamenti mirati.
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