L’impresa rimossa dai partiti
Il secondo Paese industriale d’Europa sta andando al voto ma i temi dell’impresa contano poco, quasi zero. È un paradosso che evoca Tafazzi perché i posti di lavoro di cui abbiamo assolutamente bisogno possono venire solo dalle imprese,non dalla spesa pubblica.Così l’unico dibattito di spessore che si è aperto in queste settimane sulla competitività del made in Italy lo si deve a un ministro(Carlo Calenda)che non si presenta alle urne e a un dirigente sindacale (Marco Bentivogli) che fortunatamente resterà al suo posto. Persino Fedele Confalonieri, richiesto di un giudizio sul perché i temi della trasformazione digitale siano assenti dall’agenda elettorale, ha risposto: «Ai partiti non gliene può fregare di meno». E non c’è dubbio che la maggiore responsabilità di questa rimozione ricada sui segretari che confezionando le liste si sono guardati bene dall’inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro. Il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici.
L’impresa, dunque, pur rappresentando la spina dorsale della società italiana e il vero collante di molte comunità, e pur potendo contare su una constituency elettorale che tra imprenditori e dipendenti (e senza contare le loro famiglie) è di 15-16 milioni, appare nell’anno di grazia 2018 dimenticata, messa nell’angolo. Ma attenzione, è vero che abbiamo superato la Grande Crisi e gli imprenditori hanno mostrato eccezionali doti di resilienza, siamo però dentro una partita che non prevede il pareggio. È evidente che dopo anni sono ripresi gli investimenti ma il tasso di digitalizzazione delle nostre imprese è ancora troppo basso rispetto ai concorrenti. Contiamo su valide aziende o addirittura multinazionali tascabili ma quando è il momento di raddoppiare la taglia viene fuori la debolezza del nostro mercato dei capitali e molte di esse finiscono in mano straniera, vedi Italo. Il futuro delle nostre Pmi non è affatto garantito, soprattutto per quelle tra loro che non riescono a mettersi nella scia nella grandi catene di fornitura. Aggiungo che non riusciamo a produrre nel tempo e nella quantità dovuta i tecnici che le imprese più innovative chiedono per aggiornare i sistemi di produzione e accrescere la qualità del capitale umano.
La Grande Crisi ha portato a una gestione più oculata dei conflitti sindacali, sono stati rinnovati negli ultimi anni circa 40 contratti nazionali con reciproca soddisfazione delle parti eppure la maggioranza relativa degli operai secondo i sondaggi finirà per votare per i 5 Stelle. Qualcosa vorrà pur dire. Bisognerebbe rispondere con una grande operazione di democrazia economica «alla tedesca», la partecipazione dei lavoratori all’impresa, e invece questo progetto – ormai maturo – non compare nei programmi di nessun partito e le forze sociali che pure ne sono convinte appaiono timide nel chiederlo. Duole dirlo, le responsabilità del cono d’ombra riportano anche alla Confindustria. Nei prossimi giorni terrà a Verona la sua assise pre-elettorale ma mai come in questa fase la rappresentanza degli industriali ha stentato a far sentire la propria voce. In passato se ne potevano condividere o meno azione e obiettivi ma la Confindustria era «il sale» della società civile, oggi questo ruolo non le viene più riconosciuto. Anche presi singolarmente i grandi protagonisti della vita economica – i borghesi d’un tempo – sembrano aver maturato una sorta di distacco dalla res publica, molti di loro vivono per buona parte della settimana in trasferta e rischiano di osservare solo con la coda dell’occhio, e spaesati, ciò che accade in Italia.
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