Le buone regole servono
Sembrava fosse l’orco dal quale difendersi e invece il fiscal compact, il Trattato europeo inizialmente negoziato dal governo Berlusconi e poi firmato sei anni fa dal governo Monti, è scomparso dalla campagna elettorale. Desaparecido. Ci sono due interpretazioni. È scomparso perché i partiti hanno capito che le affermazioni contrarie all’Europa non portano voti. Si veda il successo che riscuote la lista guidata da Emma Bonino che ha un nome non equivoco: Più Europa! Scomparse quindi le promesse di Lega e 5 Stelle di fare un referendum sull’euro, scomparsi i progetti di Berlusconi di introdurre una moneta parallela, cioè che circoli insieme all’euro. Magari questi capitoli si riapriranno dopo le elezioni: intanto zitti. Oppure, più semplicemente perché i programmi economici dei partiti, al di là della retorica, hanno accolto la sostanza di quel trattato, cioè l’impegno a ridurre il debito pubblico. «L’obiettivo del Partito democratico è ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al valore del 100% entro i prossimi 10 anni» (Programma del Pd). «Obiettivi del quinquennio 2018-23: portare il debito pubblico verso il 100 per cento» (Programma di Forza Italia). «Pensiamo di poter ridurre il rapporto debito-Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature» (Movimento 5 Stelle). Il problema è che non si capisce in che modo, al di là dell’osservazione, ovvia, che ciò che si vuole ridurre è un rapporto fra debito e Pil. Per ridurre il rapporto tra debito e Pil si può agire sul numeratore, il debito, o sul denominatore, il Pil. Ma i programmi si concentrano (vagamente) sul denominatore, la crescita del Pil, dimenticando il numeratore, cioè tasse e spese. Anzi, impegnandosi (giustamente) a ridurre la pressione fiscale, ma dimenticandosi di parlare di spesa al di là di vuoti riferimenti al taglio di spese inutili.
La realtà è che la legge di Stabilità approvata in dicembre dal Parlamento già prevede un profilo del debito pubblico italiano coerente con il sentiero richiesto dal fiscal compact. Il Trattato richiede ai Paesi che lo hanno firmato e che, come l’Italia, hanno un debito pubblico superiore al 60 per cento del Pil, l’impegno a ridurne l’eccedenza di un ventesimo l’anno, che per noi significa ridurre il debito ogni anno di tre punti e mezzo del Pil. La legge di Stabilità prevede che il rapporto debito/Pil scenda di quasi il 2 per cento quest’anno e poco meno del 3,5 per cento nel 2020. Questi conti sono basati su una stima realistica della crescita, intorno all’1,5 per cento l’anno, e tengono conto del fatto che i tassi di interesse, e quindi il costo del debito, riprenderanno a crescere. Insomma, i criteri indicati dal fiscal compact sostanzialmente già li rispettiamo. Ma la legge di Stabilità è scritta nell’ipotesi che i risparmi ottenuti grazie alla riforma delle pensioni non scompaiano. Da sola la legge Fornero vale in prospettiva circa 8 punti di Pil, cioè la riduzione del debito richiesta sull’arco di mezza legislatura. Legge che invece perlomeno Lega e Movimento 5 Stelle si sono impegnati a modificare pesantemente.
Purtroppo ai numeri non ci si può sottrarre. Gli interessi sul debito oggi costano 4 punti di Pil l’anno, un costo destinato a salire quando i tassi aumenteranno. Una quantità di risorse (circa 50 miliardi di euro l’anno) che si potrebbe usare (a seconda delle preferenze politiche) per ridurre la pressione fiscale o per investire in scuole e ospedali. Comunque lo si facesse (ma l’esperienza insegna che una riduzione delle tasse sarebbe senza dubbio la via migliore) è difficile riprendere a crescere se non si riesce a ridurre in maniera consistente questo fardello. Farlo non è certo semplice. Ma interrompere il sentiero virtuoso che il fiscal compact ci ha fatto imboccare sarebbe un errore grave. Le campagne elettorali sono il momento degli slogan, della conquista del consenso, persino dei sogni. Dopo arriva il tempo del governo e del realismo. Sarebbe da irresponsabili illudere prima per poi deludere.
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