Confronti tv negati, uno schiaffo agli elettori

In tutte le democrazie del mondo, prima delle elezioni, i leader si confrontano in tv. In tutte, tranne una. Indovinate quale. Non necessariamente sono duelli uno contro uno. Durante le primarie, il futuro presidente degli Stati Uniti affronta dibattiti affollatissimi (e Trump, che è alto un metro e 90, demolì il piccolo Rubio chiamandolo «Little Marco»). Macron ha discusso con il candidato trotzkista e con quello di «Caccia, pesca, natura e tradizioni». In Spagna, nel 2015 Rajoy rifiutò di misurarsi con i fondatori dei nuovi movimenti, Ciudadanos e Podemos, e si confrontò solo con il capo socialista (che lo definì «persona indecente» e ora appoggia il suo governo); ma quando nel 2016 si tornò al voto, la tv pubblica organizzò un dibattito a quattro, che oltretutto Rajoy vinse («qui al governo si viene preparati, non a far pratica»).

Il confronto televisivo è il sale delle elezioni. Un rito cruciale, sin dai tempi di Kennedy-Nixon. Persone che si odiano o si disprezzano sono costrette dalla forza dell’opinione pubblica a darsi la mano, guardarsi negli occhi, e discutere. In America e non solo, un leader che si sottraesse ai dibattiti tv non verrebbe preso sul serio da nessuno. Soltanto in Italia è possibile evitarli.

Mai come ora, invece, servirebbero. A convincere almeno una parte del 40% di indecisi. A riavvicinare almeno un poco gli elettori alla politica. A rompere la cappa virtuale di una campagna fiacca, senza comizi, lontana dalla gente, piena di promesse impossibili, chiusa nell’autoreferenzialità dei social e delle formulette scritte dagli uffici stampa.

In passato, i confronti si facevano pure in Italia. Nel ’94, da Mentana, Berlusconi distrusse Occhetto: «Beato lei che ha tempo di andare in barca, io ho da lavorare…». Nel ’96 non dispiacquero i volti allora nuovi di Prodi e della Melandri. Ma nel 2001 Berlusconi rifiutò di confrontarsi con Rutelli, inaugurando una strategia cui non è mai venuto meno: i duelli li fa quando è in svantaggio e deve rimontare, come nel 2006 con Prodi. All’evidenza, quest’anno per lui non è il caso.

I Cinque Stelle i confronti non li fanno mai. Si ritengono moralmente troppo superiori per abbassarsi al livello altrui. Se non altro nel 2013 ci furono i grandi comizi di Grillo, culminati con quello in piazza San Giovanni; stavolta ci toccano i monologhi di Di Maio. Renzi, che nell’infelice campagna per il referendum ha duellato con tutti, da Zagrebelsky a De Mita, stavolta di confronti veri non ne ha fatto neppure uno. A parole lui e Salvini si dichiarano pronti ad affrontarsi in qualsiasi posto e in qualsiasi momento; ma non ci sono ancora riusciti, e tutto lascia credere che non ci riusciranno.

È una mancanza di rispetto non tanto verso gli avversari, quanto verso gli elettori. È un paradosso per leader che dirigono partiti personali, compilano di proprio pugno l’elenco degli eletti, ma poi non trovano il coraggio di confrontarsi a viso aperto, salvo ripromettersi di farlo al riparo da occhi indiscreti dopo il 4 marzo, per trovare qualche modo di non tornare subito al voto.

Eppure sarebbe così semplice. La Rai ha tre reti destinate per legge al servizio pubblico. Berlusconi affronta la sua settima campagna elettorale da leader che dispone di tre canali tv (un duplice record mondiale). La7 si è ormai affermata come il network dell’informazione. Nelle prossime due settimane non dovrebbe essere impossibile trovare un luogo dove i capi dei principali partiti siano disposti a fare quello che in ogni altro Paese è sentito come un dovere: confrontarsi

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