Elezioni 2018, i «candidabili» nonostante tutto

di Milena Gabanelli e Andrea Marinelli

La legge n.190 del 6 dicembre 2012, nota soprattutto come Legge Severino, stabilisce chi si può candidare in Parlamento, Regioni, enti locali, e chi no. Non possono essere candidati alla carica di deputato e senatore i condannati in via definitiva a più di due anni di reclusione. A livello locale, invece, basta una condanna in primo grado.
E così, nel rispetto della legge, oggi troviamo:

• Paolo Romani, che nel 2012 da assessore all’Urbanistica del Comune di Monza aveva in dotazione un cellulare al quale rispondeva la figlia. In due bimestri la ragazza spese 9.811,63 euro che Romani, una volta scoperto dal Giornale di Monza, ha risarcito. Recentemente è stato condannato in via definitiva per peculato a 1 anno e 4 mesi (pena che sarà ricalcolata in un nuovo appello). Nel frattempo, l’ex ministro dello Sviluppo economico è capolista al Senato per Forza Italia.

• Sempre in via definitiva è stato condannato Domenico Scilipoti: aveva prodotto documenti falsi per non pagare un debito da 230 mila euro. È stato obbligato a risarcirlo e oggi è candidato al Senato con Forza Italia.
• Salvatore Sciascia, invece, è stato condannato in via definitiva nel 2001 a 2 anni e 6 mesi per una storia di tangenti pagate dalla Fininvest alla Guardia di Finanza. Riabilitato dal Tribunale di Milano nel 2005, è stato eletto nel 2008 e nel 2013 al Senato, dove oggi è nuovamente candidato con Forza Italia.
Sei sono invece le condanne non definitive:
• Umberto Bossi, condannato in primo grado a 2 anni e 3 mesi per aver usato i rimborsi elettorali della Lega «per coprire spese di esclusivo interesse personale», come scrive il Tribunale. Oggi è candidato al Senato con la Lega.
• L’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, condannato in primo grado a 6 anni di reclusione e interdetto dai pubblici uffici per corruzione: si faceva pagare viaggi e vacanze, e in cambio garantiva rimborsi al San Raffaele e alla Fondazione Maugeri. Oggi è candidato al Senato con Noi con l’Italia.
•L’ex governatore della Sardegna Ugo Cappellacci, condannato in primo grado a 2 anni e 6 mesi per la bancarotta della Sept Italia. Come consigliere delegato, avrebbe avvallato l’acquisto di una società del sindaco di Carloforte Marco Simeone, principale imputato del processo. Oggi è capolista alla Camera per Forza Italia.
• L’imprenditore delle cliniche Antonio Angelucci, condannato lo scorso anno in primo grado a 1 anno e 4 mesi per falso e tentata truffa: cercò di ottenere fondi all’editoria per i quotidiani di sua proprietà, e oggi è candidato per la terza volta alla Camera con Forza Italia.
• Urania Papatheu, capolista di Forza Italia al Senato, condannata in primo grado a un anno e 6 mesi per aver sperperato i soldi dell’Ente Fiera di Messina.
• Michele Iorio, che dopo la condanna in secondo grado a 6 mesi di reclusione e a 1 anno di interdizione dai pubblici uffici per abuso d’ufficio, è decaduto il 25 gennaio come consigliere regionale del Molise, ma due giorni dopo è stato candidato al Senato nella stessa regione con Noi con l’Italia.
Nessuno di loro è incandidabile secondo i parametri della Legge Severino, ma — essendo i partiti, e non gli elettori, a scegliere chi andrà in Parlamento — era necessario metterli in lista per le elezioni del 4 marzo? Se saranno eletti si troveranno a gestire la vita di un Paese che — purtroppo — ha già scarsa fiducia nelle istituzioni. È utile chiedersi: vale più il diritto di un singolo (che con una condanna in primo grado è da considerare innocente e, se in via definitiva, sotto i due anni è come se non la avesse), oppure l’istituzione che quel singolo rappresenta, e sulla quale non devono mai cadere ombre o sospetti?
Queste sono decisioni che rientrano nella sfera dell’etica personale e del senso di responsabilità dei partiti, e che non possono essere regolamentate per legge. Su questo punto val la pena di ricordare le dismissioni del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi e di quello dello Sviluppo Economio Federica Guidi. Quel maggior «senso dello Stato» che spesso riconosciamo ad altri Paesi europei passa anche dalla capacità di sapersi sacrificare proprio per tutelare la reputazione dell’istituzione.
Nel 2013, per esempio, il ministro dell’istruzione tedesco Annette Schavan si è dimessa quando si è scoperto che aveva copiato la tesi di dottorato nel 1980.
Nel 2014 il ministro della cultura inglese Maria Miller si è dimessa per aver usato a titolo personale soldi pubblici: 5.800 sterline poi restituite.

La settimana scorsa, il ministro degli esteri olandese Halbe Zijlstra si è dimesso per aver raccontato di aver incontrato Putin 10 anni fa. Era una balla. Poi magari di bugie Zijlstra ne ha raccontate altre…ma questo è un campo dove il politico italiano tendenzialmente non ha rivali.

CORRIERE.IT

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