Rapporto Amnesty International: In Italia crescono razzismo e xenofobia

di GIAMPAOLO CADALANU

Sono rimasti davvero brava gente gli italiani? La leggenda del popolo di buon cuore, a sentire Amnesty International, registra evoluzioni poco rasserenanti. Perché il nostro “sembra concentrare più di altri Paesi europei le dinamiche di tendenza all’odio” segnalate un po’ ovunque nel mondo, segnala Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty Italia, presentando il rapporto 2018 sui diritti umani. Quella che segnala l’organizzazione è un’Italia “intrisa di ostilità, razzismo, xenofobia e paura ingiustificata dell’altro”. In altre parole, quello che appena nel 2014 era un paese “orgoglioso di salvare le vite dei rifugiati, che considerava l’accoglienza un valore importante”, oggi è ostaggio della paura e schiavo dei discorsi xenofobi.

E le dinamiche della politica hanno aggiunto altri effetti, persino più pericolosi. “Rispetto all’anno precedente, nel 2017 c’è stato uno sviluppo preoccupante”, dice Riccardo Noury, portavoce dell’organizzazione: “La modalità già preoccupante del ‘noi contro loro’ si è complicata con un altro elemento. Adesso è ‘noi contro loro, ma anche contro voi che state con loro’. E quel ‘voi’ sono gli italiani che da soli, con le associazioni o con altre forme di volontariato praticano la solidarietà, l’accoglienza, la condivisione”. Non si tratta solo della demonizzazione di Ong e delle loro attività di ricerca e soccorso in mare, ma anche dei cittadini che, soprattutto nelle zone di frontiera, si ribellano al discorso dell’ostilità e della xenofobia e finiscono per essere considerati come “collaborazionisti”.

Alla radice di tutto questo c’è l’equazione “immigrazione uguale insicurezza”, rafforzata dal discorso securitario che ha portato agli accordi con la Libia. Un passaggio di significato che è subito seguito dal proliferare di messaggi come “Prima gli italiani” o slogan come “Sostituzione etnica”, sempre più diffusi sui social network. Per sorvegliare la diffusione del discorso d’odio, Amnesty ha lanciato il monitoraggio della campagna elettorale, e già i primi risultati confermano un dato tutto sommato prevedibile: gli stereotipi discriminatori, razzisti o incitanti all’odio e alla violenza sono da attribuire ai tre partiti della coalizione di centrodestra: Lega Nord (50%), Fratelli d’Italia (27%) e Forza Italia (18%).

L’Italia, ricorda Noury, è solo l’ultimo Paese ad affiancarsi in una direzione già mostrata dall’Ungheria di Orban, dagli Usa di Trump, dalle Filippine di Rodrigo Duterte. Ma nel rapporto 2018 di Amnesty la visione del mondo non è del tutto negativa. E’ vero che i predicatori dell’intolleranza vogliono farci vedere un pianeta strangolato dalla paura, dove l’odio è la risposta automatica e lo spirito di umanità una risorsa inaridita, quasi inutilizzabile. E’ una visione da incubo a cui però Amnesty affianca un contrappeso denso di significato: la certezza che sempre più persone si mobilitano per contrastare questo messaggio, che l’attivismo equivale all’impegno per società più giuste, e che la speranza sopravvive, quale che sia la latitudine.

Se i leader coltivano la diffidenza per accrescere il proprio potere, la società civile reagisce, costruendo un dissenso maturo, con una capacità di mobilitazione che supera gli steccati del dogma. Il mondo del dopo-ideologie è dipinto in un quadro dinamico, con scorci disperanti ma anche accenni in grado di suscitare speranza.

La mappa dei diritti umani è sempre in evoluzione, le certezze si rovesciano ogni momento, e dunque le critiche di Amnesty non risparmiano nessuno. Ce n’è per la  Caasa Bianca, che ha deciso di vietare l’ingresso in Usa a persone provenienti da diversi paesi musulmani, come per il premio Nobel Auung San Suu Kyi, sotto il cui sguardo impassibile si svolge la persecuzione dei Rohingya in Myanmar, per il presidente egiziano Abd al-Fattah Al-Sisi come per l’“uomo forte” di Manila, e così via, in una rassegna di governi autocratici dotati di retorica tossica più che di capacità di intervento sociale.

Ma prima che le società si abituino al veleno, finendo per non vedere più gli abusi e la marginalizzazione dei gruppi minoritari, le campagne per la giustizia sociale riprendono a scuotere anche le coscienze intorpidite, frenando e spesso invertendo la tendenza, con passi avanti nelle nazioni più ricche come in quelle in via di sviluppo. Così alle iniziative della Casa Bianca si contrappongono movimenti civili come #MeToo, o “Ni Una Menos”, in Cile il divieto totale di aborto viene ridimensionato, a Taiwan si va avanti verso un matrimonio egualitario, in Nigeria rallentano gli sgomberi forzati.

C’è però il pericolo di un bavaglio, denuncia Amnesty: si diffonde la tendenza a promuovere notizie false e a contestare l’autenticità di quelle sgradite, così la libertà d’espressione diventa un terreno di battaglia sempre più importante. “Non possiamo dare per scontato che nel 2018 saremo liberi di radunarci per protestare o criticare i nostri governi: prendere la parola sta diventando sempre più pericoloso”, segnala Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.

Allo stesso tempo, serve maggior impegno dei governi per risolvere i problemi nell’accesso ai diritti fondamentali: l’alloggio, il cibo, le cure mediche. “Se si negano questi diritti, si alimenta una disperazione senza fine”, dice Shetty. “Sotto i nostri occhi si fa la storia: sempre più persone si attivano per chiedere giustizia. Se i leader non riconosceranno i motivi che spingono le popolazioni a protestare, sarà la loro rovina. Le persone hanno reso abbondantemente chiaro che vogliono i diritti umani: sta ai governi mostrare di saperle ascoltare”.

REP.IT

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