I violenti e le parole ambigue

«Noi condanniamo qualsiasi violenza e da qualsiasi provenienza. Però non possiamo fare a meno di ricordare che l’Italia è una Repubblica fondata sull’antifascismo, che la nostra Costituzione è antifascista». Queste a un dipresso le parole di tanti esponenti dello schieramento di sinistra a commento dei gravissimi incidenti di Torino e in genere di quanto sta succedendo in molti luoghi d’Italia. Parole che per l’appunto ruotano intorno a una formula in questi giorni sentita e risentita: la nostra è una Costituzione antifascista.

Sta bene. Si dà il caso però che la storia — la storia ripeto e non già le nostre opinioni personali — dovrebbe farci chiedere: antifascista sì, ma di quale antifascismo? Come infatti sa chi ha letto qualche libro, la storia registra molti avvenimenti che non possono non porre qualche problema di contenuto quando si adopera il termine antifascismo. Erano certamente antifascisti, ad esempio, quelli che in Spagna incendiavano le chiese e passavano per le armi preti, anarchici e trotzkisti. Erano antifascisti quelli che nel 1939 pensavano che l’Unione sovietica avesse fatto benissimo ad annettersi i Paesi baltici e mezza Polonia dopo essersi messa d’accordo con Hitler, così come lo erano quelli che sul nostro confine orientale dal ’43 al ’45 gettarono qualche migliaia di italiani nelle foibe.

Antifascisti e per di più partigiani erano pure quelli dalla cui associazione (l’Anpi), non condividendone le idee di fondo, si staccarono i partigiani cattolici prima e poi quelli azionisti guidati da Parri nel 1948-49. Ancora: antifascisti a diciotto carati erano pure quelli che negli anni ‘50 non esitavano a definire «nazisti» gli Stati Uniti mentre non riservavano una sola parola di solidarietà, neppure una, agli antifascisti cecoslovacchi o ungheresi, solo pochi anni prima loro compagni nella Resistenza e ora mandati sulla forca con le accuse più inverosimili e infamanti dai regimi comunisti stabilitisi nei loro Paesi. E non si sono sempre proclamati antifascisti — a loro dire anzi del più «coerente» antifascismo — i terroristi delle Brigate rosse e di altre organizzazioni consimili?

Le parole insomma spesso sono ambigue. Definire la nostra Costituzione antifascista è dunque vero sul piano dei fatti — nel senso che essa fu opera delle forze antifasciste — ma sul piano dei valori non vuole dire nulla di preciso, se è vero come è vero che anche i «teppisti» di Torino (copyright di Antonio Padellaro ) si dicono e si considerano antifascisti (e che anche i teppisti possono essere in buona fede). Dovremmo allora concluderne che tra loro, che se la ridono della legge e praticano sistematicamente la violenza, e noi, che pure ci riconosciamo interamente in questa Costituzione e ci consideriamo antifascisti, esistono tuttavia valori in comune? E quali?

Qualcuno risponde: «Il valore in comune è l’antifascismo, appunto: di fronte a un vero pericolo fascista si costituirebbe un fronte comune». Ma è una risposta sbagliata. Una risposta che allucinata dal mito della Resistenza, ma nulla sapendo della Resistenza vera (che in realtà fu attraversata da durissime contrapposizioni tra le forze antifasciste, non escluso il vero e proprio scontro fisico), estrapola l’oggi dalla situazione del ’43-’45. Ignorando che oggi, grazie precisamente alla Costituzione, viviamo però in un regime democratico. E che le democrazie si difendono dal fascismo non facendo la Resistenza — come pretenderebbero facendola a modo loro i teppisti di Torino, di Piacenza o di Palermo — bensì applicando la legge. Nelle democrazie il capo della Resistenza è il Ministro degli interni. Punto. Se non lo è — ma il ministro Minniti appare da ogni punto di vista perfettamente calato nel ruolo — va richiamato ai suoi doveri, non già surrogato da qualche violento capobanda dei centri sociali.

Se il passato insegna qualcosa, infatti, è che il miglior favore che un regime libero possa fare al fascismo è la rinuncia all’applicazione della legge, l’abbandono delle strade e delle piazze all’urto tra la violenza degli opposti schieramenti. Nell’Italia della Costituzione, invece, difendere la democrazia — dal fascismo come da ogni altra minaccia — è compito solo delle forze dell’ordine della Repubblica. Ed è per questo che verso di esse grande è, e deve essere, il debito di riconoscenza dei cittadini.

Di fronte ai fatti di violenza di questi giorni la quale pretende essere di sinistra, la domanda da porsi è: quale linea politica, quale parola d’ordine, servono per tracciare rispetto a tale violenza la linea di confine più invalicabile? Quale valore serve a prenderne le distanze nel modo più netto? La parola d’ordine e il valore dell’antifascismo o della democrazia e della legge? Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressione delle libertà, ebbene, allora la sua antitesi non è l’antifascismo, è la democrazia. La storia del resto conta pure qualcosa: mentre non è mai esistita una democrazia o un democratico che non fosse antifascista, più e più volte, all’opposto, persone, movimenti e regimi che si identificavano con l’antifascismo hanno mostrato che con la democrazia non avevano molto a che fare. L’antifascismo (insieme alla vittoria degli Alleati) ha dato al nostro Paese la democrazia, e ciò resta a suo merito. Ma oggi dei suoi emuli violenti della venticinquesima ora non c’è alcun bisogno: per guardarsi dai pericoli la democrazia italiana basta a se stessa.

CORRIERE.IT

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