Superare il Fiscal compact per riprendere lo sviluppo europeo
Viviamo in un periodo di emergenza europea ma pochi sembrano accorgersene. C’è una scadenza imminente a cui stampa e politica non dedicano risalto, che ha invece un rilievo economico e sociale enorme. L’art. 16 del Fiscal Compact stabilisce che a cinque anni dall’entrata in vigore (dal 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione della sua attuazione, i 25 Paesi Europei firmatari – tra cui l’Italia – siano tenuti a incorporarne le norme nella cornice giuridica dei Trattati Europei. A più riprese espressioni di insofferenza nei confronti del Patto sono state manifestate da parte di politici italiani di varia estrazione; e giuristi attenti alla legislazione comunitaria hanno denunciato che il Patto sarebbe addirittura contrario agli stessi principi sanciti dai Trattati Europei. Il dibattito italiano sull’integrazione del Fiscal Compact nella legislazione europea è sporadico rispetto all’urgenza della scadenza e al tempo stesso radicale, ma non è diffusa né consolidata un’analisi approfondita del suo effettivo funzionamento e dei risultati prodotti.
Un recente appello al Parlamento Europeo di 109 economisti e accademici italiani e internazionali sottolinea alcuni aspetti sui quali il Patto è semplicemente sbagliato e controproducente, e perciò stesso ingiustificato qualunque suo rafforzamento istituzionale. Il primo punto è l’esigenza, già sollevata nei confronti del Trattato di Maastricht, di scorporare gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo: una correzione che, rispetto alla finalità di assicurare la stabilità economica e la crescita dell’Unione, è molto più rilevante del possibile allargamento del margine di deficit previsto dal Patto di Stabilità e Crescita.
Tanto per citare qualche numero, l’incidenza degli investimenti sul PIL si è contratta tra il 2007 e il giugno 2017 di circa 2 punti percentuali nella media dell’Unione, più di 3 nell’Eurozona, quasi 5 punti in Italia, 10 in Spagna, e 17 in Grecia. Anche al di là del dibattito sull’entità dei moltiplicatori, è ormai chiaro a tutti che in una fase di crisi gli Stati nazionali hanno il dovere di sostenere, con il conforto dell’Unione Europea, l’economia e l’occupazione con robuste misure di struttura e non solo anticicliche. Questo tipo di interventi, peraltro, va esteso fino a coprire gli investimenti pubblici in capitale umano: se non l’insieme della spesa pubblica in istruzione e ricerca, troppo vasta e articolata, almeno quella per l’industrializzazione della ricerca di base e l’occupazione di ricercatori e tecnologi.
Un secondo aspetto critico è quello più discusso, ovvero l’obbligo di pareggio strutturale dei conti pubblici. Il principio presuppone la regolarità e l’equivalenza in durata delle fasi positive e negative o almeno la non prevalenza delle fasi recessive, cosa che allo stato attuale dell’economia globale è tutt’altro che scontata. E richiederebbe poi modalità indiscutibili di calcolo della condizione “potenziale” dell’economia. L’attuale procedura utilizzata dalla Commissione Europea, però, non risponde né all’uno né all’altro requisito tant’è che l’OCSE, ad esempio, utilizza un computo ben differente che, nel caso dell’Italia, porta a risultati molto più favorevoli, che il nostro Governo ha sinora inutilmente illustrato alla Commissione. Insomma, ammesso e non concesso che esista una procedura più ragionevole e condivisa di calcolo degli “sforamenti strutturali”, in sua assenza il sospetto che si sia di fronte a ingiustificate imposizioni derivate da una “teoria” economica inconsistente, e dunque errate non solo nel merito ma anche nel metodo, non può che rafforzarsi e gettare discredito sugli organi di governo dell’economia europea.
Anche l’obbligo per i paesi con un debito sopra il 60% del PIL di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno è discutibile. Quando venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era altro che il valore medio dei paesi aderenti all’Unione. Oggi, a fronte dei risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%. In queste condizioni, e a fronte delle incidenze ancora maggiori che in Giappone e Stati Uniti, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici. L’obbligo – che va ottemperato senza tener conto di possibili condizioni recessive – rischia infatti di accentuarle.
Infine, nell’attuale fase di significativo alleggerimento del Quantitative Easing, l’auspicabile apertura di una discussione seria e approfondita sui risultati delle politiche economiche europee deve proporsi anche una riconsiderazione della missione istituzionale della BCE, tale da prevedere oltre a quello della stabilità della moneta anche l’obiettivo della minimizzazione della disoccupazione. Si pensi a quanto più rapida e forte sarebbe stata la ripresa dell’occupazione, e a quanto prima lo stesso sistema bancario si sarebbe rafforzato perché sorretto dal mercato anziché dalla banca centrale, se uno strumento di sostegno agli investimenti come l’esile Piano Juncker fosse stato finanziato per cifre mensili pari anche a un decimo soltanto della spesa sostenuta per il QE.
E’ pur vero che a dicembre la Commissione Europea ha proposto di includere il Fiscal Compact nella legislazione dell’UE piuttosto che nei Trattati, e in una forma più blanda: una Direttiva del Consiglio, sottoposta all’approvazione del Parlamento Europeo e caratterizzata dai ristretti margini di flessibilità ammessi dalle regole attuali del Patto di Stabilità. Ma si deve resistere comunque, perché quelle regole continuerebbero a produrre il consueto ambiente deflazionistico. La necessaria garanzia di flessibilità – che secondo il Patto di Stabilità è nella disponibilità della Commissione Europea – può essere assicurata davvero solo dalla “regola d’oro” del bilancio pubblico, che richiede il pareggio solo della parte corrente, senza porre limiti autopunitivi all’investimento pubblico.
La doppia crisi che ha travolto l’economia europea nell’ultimo decennio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che è proprio la macchina europea ad aver bisogno di profonde riforme strutturali. Riforme che, come mostrano i recenti studi effettuati nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono puntare al netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi investimenti, anziché verso un modello mercantilista, problematico sotto il profilo dell’equilibrio economico globale quanto incapace di assicurare progresso, convergenza e coesione economica e sociale all’interno dell’Unione.
* Economisti
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