Il valore di chi è più capace

Per il prossimo 4 marzo circa 50 milioni di italiani sono chiamati al voto. Questo — lo dice la Costituzione — è un «dovere civico». Quel voto servirà a scegliere i membri del Parlamento, non il governo. In una repubblica parlamentare, il popolo elegge chi dovrà esercitare il potere legislativo, non chi è chiamato a svolgere compiti esecutivi. I sistemi elettorali e la divisione in due grandi forze politiche (centrodestra e centrosinistra), avevano permesso per circa vent’anni di conoscere la sera delle elezioni chi avrebbe governato. L’attuale tripolarismo e la nuova legge elettorale impediranno, di fatto, che questo avvenga. Nel seggio, i votanti non potranno decidere liberamente chi votare, ma dovranno approvare o respingere le candidature proposte dai movimenti politici. È, quindi, importante sapere come queste siano state selezionate, quale è stato l’equilibrio tra popolarità, esperienza, legame con il «territorio» (cioè con un collegio elettorale), rappresentanza della «società civile», che le forze politiche hanno stabilito. Di tutto questo sappiamo poco, ma possiamo evincere alcuni elementi da uno studio dell’Istituto Cattaneo sulle pluricandidature e sul ricambio dei candidati. Alle molto temute pluricandidature, le forze politiche hanno fatto ricorso con moderazione: solo un sesto dei candidati è nelle liste di più di un collegio. Questo vuol dire che non c’è stato quello strapotere delle segreterie dei partiti o dei leader, che prima si temeva, nel collocare i candidati preferiti in più posti, per assicurarne l’elezione.

Altro elemento importante è il ricambio della classe politica (almeno, per ora, quello «in entrata», perché solo al termine delle elezioni potremo misurare quello «in uscita»). Oltre il 75 per cento dei candidati nei collegi uninominali non ha mai seduto in Parlamento (ma la percentuale varia molto da partito a partito). Il 79 per cento dei candidati nei collegi plurinominali non è stato in precedenza parlamentare (ma i «nuovi» sono per lo più nelle posizioni ultime delle liste, e quindi il numero dei volti nuovi è destinato ad essere ridimensionato dopo le elezioni).

Questo ricambio ha un aspetto positivo ed uno negativo. Ci si può aspettare che il prossimo Parlamento avrà molti volti nuovi, perché molti volti vecchi non hanno meritato. Dai candidati nuovi ci si può anche attendere molta inesperienza: occorrerà che essi si «facciano le ossa». Tanto più che un ricambio così forte si aggiunge al ricambio degli anni precedenti, mentre un certo grado di «professionismo» politico è necessario. Non va dimenticato che non esistono più i partiti di una volta, i partiti-macchina, quelli che servivano a selezionare, formare, promuovere, una classe politica, dal basso, fino ai livelli più alti.

Tra i candidati, il corpo elettorale (i votanti) dovrà scegliere. Il criterio di questa scelta, dicevano i costituenti americani alla fine del ’700, è «quello di assicurarsi come governanti uomini dotati di molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il bene comune della società» («Il federalista» n. 57). Uno dei padri fondatori dello Stato italiano, Vittorio Emanuele Orlando, scriveva nel 1889 che l’elezione è «una designazione di capacità», perché l’esercizio delle funzioni pubbliche «spetta ai più capaci».

Si è, invece, diffusa l’idea che i parlamentari non vadano scelti per le loro qualità e per lo scrupolo negli impegni che prendono, perché basta che ascoltino il proprio elettorato. Chi pensa questo non sa che i Parlamenti discutono prima di votare, che la maggior parte del loro lavoro si svolge in commissione, che i rappresentanti del popolo non sono macchinette per votare ma esseri pensanti, che debbono discutere, soppesare le varie opzioni, convincersi, prima di decidere. Un grande uomo politico inglese, e uno dei più acuti osservatori dello sviluppo della democrazia, Edmund Burke, disse nel 1774 ai suoi elettori di Bristol che il Parlamento non è un «congresso di ambasciatori d’interessi diversi, l’un l’altro ostili», che agiscono come mandatari, e che la legislazione è questione di ragione e di discernimento e i deputati non possono essere teleguidati da un mandato imperativo dei loro elettori. Questo è ancor più vero in Italia, dal momento che il Parlamento invade continuamente l’area di azione del governo e dell’amministrazione, nella quale sono necessarie competenza, esperienza e preparazione tecnica.

Insomma, se chiediamo all’idraulico o al falegname, al chirurgo o all’ingegnere che sappiano fare (e bene) il loro mestiere, perché la competenza non dovrebbe essere uno dei criteri per scegliere coloro che debbono svolgere una funzione molto più importante e gravida di conseguenze per la collettività, di quella del falegname, dell’ingegnere, del medico? La politica non è e non dovrebbe essere un mestiere, perché essere eletti deputati non vuol dire trovare un impiego e non è auspicabile che i politici siano tali a vita. Tuttavia, essa è una professione, ed è anche una professione difficile, che bisogna imparare e saper esercitare.

CORRIERE.IT

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