La posta in gioco per il Paese

Anche se si limitano a dirlo nelle conversazioni private, alcuni pensano che le elezioni della prossima settimana ricordino, per certi versi, quelle del 18 aprile del 1948. Le circostanze internazionali e interne sono naturalmente diversissime. Tuttavia — pensano costoro — un elemento di somiglianza c’è: oggi come allora la posta in gioco è la democrazia. Non nel senso che ci sia oggi(a differenza dell’altra volta)una immediata minaccia alla sua sopravvivenza ma nel senso che queste elezioni potrebbero spingere il Paese lungo un piano inclinato, percorso il quale(magari solo fra qualche anno) diventerebbe pressoché inevitabile qualche «aggiustamento» in senso autoritario. Anche chi scrive lo pensa. Ma perché i confronti storici non risultino ridicoli o assurdi occorre specificare bene dove stiano le differenze e dove le somiglianze.

Cominciamo dalle somiglianze. Allora come oggi esistono nel Paese robuste correnti di opinione ostili alla democrazia rappresentativa , correnti che vogliono imporre la «vera democrazia». Queste correnti evocano(in salsa prevalentemente sovietico-comunista allora,in salsa prevalentemente populista-latinoamericana oggi)cambiamenti dell’organizzazione sociale, economica e politica poco compatibili con il mantenimento di una società pluralista e libera.

Un altro cruciale elemento di somiglianza fra allora e oggi sta nel bivio in cui si trova il Paese per quanto riguarda la sua collocazione internazionale. A seconda degli equilibri post-elettorali la nostra posizione internazionale potrebbe anche subire, nel tempo, rilevanti cambiamenti. Potrebbero allentarsi i legami atlantici. Potrebbero anche esserci tentativi (naturalmente difficili da realizzare)— in nome del cosiddetto sovranismo — di allentare i legami europei. Un rapporto solidale con la Russia potrebbe sostituire progressivamente quello con gli Stati Uniti. Per essere più precisi bisogna dire che tutte le forze politiche italiane, nessuna esclusa, intendono oggi mantenere un rapporto di amicizia e di collaborazione con la Russia. Ma alcune vorrebbero di più: vorrebbero sostituire la Russia agli Stati Uniti come grande potenza di riferimento dell’Italia. Insomma, la più vistosa somiglianza fra il ‘48 e oggi è che in entrambi i casi sono presenti formazioni antisistema che hanno una forte presa su una parte ampia dell’opinione pubblica.

Poi, come è ovvio, ci sono le differenze. La più importante di tutte naturalmente riguarda il fatto che le elezioni del ‘48 si verificarono in un’arena internazionale spaccata politicamente in due: di là il comunismo a guida sovietica, di qua la democrazia e l’economia di mercato a guida americana. Per conseguenza le elezioni italiane avvennero in un clima di polarizzazione (nel senso di una divisione fra due soli campi): la scelta, netta e chiara, era fra Mosca e Washington. La polarizzazione interna, italiana, era un riflesso della polarizzazione internazionale.

Oggi non c’è polarizzazione all’interno del Paese perché non c’è polarizzazione ma piuttosto confusione — una pluralità di fratture che si intersecano in vari modi — nell’arena internazionale. Questa confusione è responsabile del fatto che, a differenza di quanto accadde nel 1948, fatta eccezione per qualche appello pro o contro l’Europa, la politica internazionale sia stata assente in questa campagna elettorale. Una «assenza ingiustificata», potremmo dire, se si considera che la democrazia in Italia è stata garantita per un settantennio proprio dal suo ancoraggio internazionale. Non parlare di politica internazionale e della collocazione internazionale dell’Italia significa quindi non parlare delle condizioni da cui dipende, in larga misura, la stabilità della democrazia.

Coloro che respingono l’idea che le imminenti elezioni italiane siano accostabili (sia pure con i limiti indicati) a quelle del ‘48 usano l’una o l’altra di due argomentazioni. La prima è plausibile, la seconda molto meno. L’argomentazione plausibile è che se diamo retta ai sondaggi, dobbiamo pensare che le elezioni, non registrando né vincitori né vinti, potrebbero aprire una fase confusa, interlocutoria. L’idea è che si susseguano per un po’ governi deboli e instabili. In attesa delle elezioni successive, nelle quali, forse, ci saranno infine vincitori e vinti, dalle quali usciranno le future forze egemoni. Può essere che sia così.

Il secondo argomento è meno plausibile. È quello di chi pensa che sia possibile normalizzare, addomesticare, le formazioni antisistema. Basta portarle in area di governo — pensano i fautori di questa tesi — e il gioco è fatto. Noto che anche in altre epoche c’è stato chi ha tentato tale opera di normalizzazione ma per lo più senza successo.

Al momento, certe rilevazioni demoscopiche indicano la possibilità di un’Italia divisa politicamente in tre tronconi: centrodestra al Nord (ma ammesso che sia così, chi ne sarebbe il leader: Berlusconi o Salvini? ), Partito democratico al Centro, Cinque Stelle al Sud. È il ritratto di una democrazia a rischio di usura. Grazie al cielo, i pronostici, con una certa frequenza, non colgono nel segno.

CORRIERE.IT

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