La voce inascoltata dei sindaci
In campagna elettorale sono indispensabili, compaiono accanto a tutti i candidati, ma le loro ragioni nei programmi sono state un po’ accantonate, se non addirittura rimosse. È uno dei paradossi del quattro marzo. D’accordo, sono elezioni politiche, non amministrative. E i sindaci non sono eleggibili, a meno che non si dimettano 180 giorni prima. I presidenti delle Regioni invece sì, come fa quello dell’Abruzzo (Luciano D’Alfonso candidato per il Pd al Senato) che poi, se sarà eletto, dovrà scegliere una delle due cariche. Tutti i temi caldi (sicurezza, immigrazione, contrasto alla povertà, investimenti), quelli che muoveranno le preferenze degli elettori, vedono i sindaci in prima linea. Senza di loro si fa poco. Sarebbe stato meglio ascoltarli, ma questa volta – a differenza di quello che era accaduto cinque anni fa — l’Anci, l’Associazione che riunisce i Comuni e le Città metropolitane — ha preferito non mandare nulla ai partiti. Ha stilato un documento, sul quale vi è stata la più ampia convergenza dei sindaci, e poi se lo è tenuto nel cassetto. «Non ne valeva la pena». L’episodio è significativo. Spia di un certo scollamento istituzionale e di come l’imbarazzo per l’eccessiva frammentazione del quadro politico (e anche per il contrasto di alcune idee con quelle della propria parte) abbia accomunato molti
primi cittadini che domenica prossima voteranno schieramenti opposti.
«Isindaci sono il terminale più esposto della Repubblica» come dice il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Hanno più preoccupazioni che strumenti. Il cittadino si rivolge loro anche quando la competenza è altrui. Sono accusati non raramente di colpe che non hanno. La voglia di fare è in diversi casi frenata dalla paura di incorrere nell’abuso d’ufficio per una firma di troppo. O di omissione per una di meno. Ma quando ci sono qualità personali, realismo e buon senso, le soluzioni si trovano.
Quelle che funzionano superano la prova della dura realtà del territorio, non risplendono nella stratosfera dei sogni e delle ideologie. Un bilancio è magro allo stesso modo per un sindaco di destra e per uno di sinistra. Non sono tutti uguali, per carità. Ma, quando si impegnano, mostrando capacità ed efficienza, non sono poi così tanto diversi.
Che cosa dice il documento dell’Anci? «Noi sindaci siamo chiamati a tenere la barra dritta anche in questa fase dialettica. Siamo convinti che si possa rafforzare il comune sentire e tenere insieme una comunità di persone». Con il decreto Minniti sulla sicurezza «si è fatto un gigantesco passo avanti». I sindaci, che lo «hanno fortemente voluto», propongono «sanzioni più efficaci per colpire comportamenti illeciti, soprattutto quelli che destano più allarme nelle città». L’accenno a un utilizzo della leva fiscale «per una migliore e finalmente più equa distribuzione della ricchezza locale», insieme a una maggiore autonomia su entrate e spese, non collima perfettamente con quanto si sente in campagna elettorale in materia di tasse. Ma la richiesta di una riforma della finanza locale non appare ancora rinviabile. «È un documento — dice il sindaco di Bari, Antonio De Caro, pd e presidente dell’Anci — nel quale facciamo proposte concrete, come l’autoriforma dei Comuni, ma esprimiamo anche il nostro trasversale malessere. Per esempio che cosa vogliamo fare della legge Delrio sulle 14 Città metropolitane? Tenerle così separate dal capoluogo non ha senso. Le Province, piaccia o no, sono rimaste in piedi, non si può far finta di nulla».
Ma è soprattutto sul ruolo dei sindaci che il documento contiene i passaggi più duri. «Siamo afflitti da un diluvio di norme poco chiare. Abbiamo molte responsabilità, più di quelle che gravano sulle spalle di un parlamentare o consigliere regionale». Il documento fa l’esempio degli interventi in materia di sicurezza nelle scuole. «I soldi li mette lo Stato, la programmazione spetta alla Regione, ma chi risponde davanti al giudice?». Il sindaco, ovviamente. De Caro rivendica la clausola di salvaguardia sull’accoglienza dei migranti — cioè non più di 3 ogni mille abitanti — come una regola di buon senso generale, valida per sindaci di diverso colore.
Enzo Bianco, sindaco pd di Catania, spiega che «verrà chiesto, subito dopo il voto, un incontro con tutti i gruppi parlamentari». «Il nostro — aggiunge — è un messaggio di governabilità del Paese, peraltro condiviso da colleghi con posizioni molto diverse dalle mie». «Quel documento — sostiene Chiara Appendino, sindaco Cinquestelle di Torino — è stato fatto molto bene. Io credo che chiunque governerà dopo il quattro marzo dovrà rivedere in profondità il rapporto con i Comuni. I tagli indiretti sono stati dolorosi, per Torino parliamo di 20 milioni in un anno. È vero che le buone soluzioni non hanno colore. L’impegno del governo sulle periferie è stato positivo, dovrebbe essere strutturale. Ma il tema del welfare è largamente sottovalutato, c’è una zona grigia di povertà che nessuno vede. Gli interventi dei vari enti non sono coordinati». Anche il sindaco di centrodestra di Venezia, Luigi Brugnaro, particolarmente critico sul Rosatellum («Fa semplicemente schifo») sottoscrive il documento con convinzione. «E dopo le elezioni ci vorrà una rivalutazione del nostro ruolo. Un sindaco, quando ci sono gravi problemi, non può che essere filogovernativo».
È davvero un peccato che in questa fantasmagorica campagna elettorale non siano state discusse le proposte dei sindaci. Sui temi reali, che più toccano i cittadini, le differenze fra eletti di vario orientamento non sono così ampie. Il buon senso non è raro. E nemmeno quel «coraggio della responsabilità» di cui parla Luciano Fontana nel suo libro (Un Paese senza leader, Longanesi).
CORRIERE.IT
This entry was posted on giovedì, Marzo 1st, 2018 at 09:45 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.