Il silenzio degli intellettuali sulle sorti del Paese

Ci fu un tempo, in Italia, in cui alla vigilia di ogni appuntamento elettorale fioccavano gli appelli, le prese di posizione sottoscritte da sfilze di scrittori, professori universitari di ogni disciplina, giornalisti, uomini e donne del cinema e della televisione, che invitavano a votare per questo o per quello (quasi sempre, in verità, per i partiti di sinistra). Oggi invece regna il più completo silenzio. Sembra che più nessuno se la senta di spendere il proprio nome a favore di un qualunque partito. Certo, in teoria della cosa ci si potrebbe pure rallegrare. C’era sicuramente moltissimo di retorico, infatti, di superficiale, di ingenuo se non di opportunistico, in quegli appelli. Mossi assai spesso da semplice conformismo ambientale. A loro modo però essi erano anche qualcos’altro: erano l’esito estremo di una lunga tradizione di impegno nazionale degli intellettuali e dei ceti colti italiani. Di un coinvolgimento autentico nelle vicende del proprio Paese, nelle sue speranze, nei suoi sforzi per crescere e diventare moderno, nelle sue lotte civili. Anche nelle sue illusioni, naturalmente, non escluse quelle più funeste.

È stata una tradizione d’impegno nazionale iniziata ai primi dell’800 — allorché sulla Penisola si alzarono altissimi i due «gridi» dei foscoliani «Sepolcri» (1807) e della canzone «All’Italia» (1818) di Giacomo Leopardi — e che con il Risorgimento diventò anche pienamente politica.

Una tradizione rimasta vivissima fino alla Prima Repubblica dopo aver attraversato tutto il nostro Novecento, e dunque dopo aver segnato in misura decisiva l’intero itinerario ideologico del Paese. Molti lo ignorano, ma nel bene come nel male poeti, romanzieri, scienziati, registi, letterati, giornalisti, hanno fatto l’Italia come pochi altri.

Oggi soprattutto, ma già da qualche tempo, non è più così. Gli intellettuali italiani, la cultura in genere, non sembrano più riuscire a interessarsi dell’Italia, delle sue sorti come del suo futuro. E forse neppure desiderare di farlo. Difficile dire se per sfiducia, per stanchezza, per mancanza di idee forti, o perché dall’altra parte la politica di queste idee non ha più bisogno, perché non ha né la voglia né la capacità di ascoltare qualunque discorso si discosti appena dalla sua grigia routine e dai suoi piccoli grandi affari quotidiani.

Sta di fatto che è difficile sottrarsi all’impressione che anche il venir meno di un carattere così tipico della nostra vicenda nazionale come l’impegno politico degli intellettuali, anche ciò, insieme a tanti altri sintomi, testimoni che qualcosa si è rotto nella fibra del Paese e nella sua identità storica. Che oggi l’Italia si trovi di fronte ad una crisi la quale, più che legata a fattori economici, sia una crisi dovuta all’incertezza circa il senso profondo del suo ruolo e del suo futuro, una crisi di volontà di vita (la caduta delle nascite!) così come della capacità di legare lo ieri con l’oggi e con il domani in una prospettiva dotata di significato e di valore.

Una crisi insomma, che richiedendo come non mai il coraggio dell’azione della politica da un lato e dall’altro l’intelligenza della cultura, proprio per questo rivela l’assenza drammatica dell’una e dell’altra. Il sintomo di crisi che è rappresentato da questo allontanamento/lontananza degli intellettuali rispetto alla politica, dalla loro tacita dimissione da un ruolo in senso lato nazionale, tale sintomo è ancor più accentuato nel suo aspetto negativo da un fenomeno concomitante e solo all’apparenza diversissimo. Mi riferisco all’ormai massiccia emigrazione di giovani italiani verso università, centri di ricerca, istituzioni industriali e finanziarie, organizzazioni internazionali, fuori dai nostri confini. A proposito della quale mi sembra giusto chiedersi: non è forse questa emigrazione una nuova manifestazione — naturalmente adattata ai tempi — di quella «funzione cosmopolita» dei colti italiani di cui a suo tempo ci ha parlato Gramsci? Nella nostra storia, egli ci ha ricordato, ben prima della grande emigrazione delle masse povere tra ‘800 e ‘900 , nei lunghi secoli dal ‘400 al ‘700 c’è stata quella di ammiragli e condottieri, uomini di corte, letterati, artisti, geografi: «un’emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo». C’è stata insomma «una concentrazione culturale cosmopolita» propagatasi dalla Penisola verso gli altri Paesi, la quale ha forse voluto dire, sì, una diffusione del «genio» italiano nel mondo, ma al tempo stesso è stata pure l’altra faccia se non la causa — è sempre Gramsci che scrive — di «una debolezza statale e nazionale».

Oggi — tutto lo lascia credere — quella «debolezza statale e nazionale» si riaffaccia prepotentemente nella nostra storia, e ancora una volta ne rappresenta una cartina al tornasole il ruolo e la sorte dei colti. Sia degli intellettuali per così dire tradizionali — quelli che vivono un forte legame con il passato e si occupano espressamente delle produzioni culturali, delle idee e dei valori, della società, e quindi necessariamente anche della politica — sia dei colti versati nei tanti saperi specialistici dai molti esiti pratici. Entrambi i quali appaiono accomunati da una crisi che per i primi consiste nella sopravvenuta superfluità della loro antica funzione politico-pubblica di orientamento e riflessione nei confronti dei propri concittadini, per i secondi nell’impossibilità di adoperare le loro conoscenze a favore della propria collettività d’appartenenza. In ogni caso con un effetto di sradicamento, virtuale o pratico non importa, da un’Italia che anche per loro non sembra più capace di avere alcun posto.

CORRIERE.IT

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