Il paradosso del dopo voto: vince chi rinuncia al governo
Forse per districarsi nella giungla di un voto che ha trasformato il Parlamento in un luogo dove è difficile immaginare una maggioranza, più o meno come nella Repubblica di Weimar (anche se il paragone appare fin troppo drammatico), bisogna partire dal presupposto che queste elezioni hanno avuto due vincitori, leghisti e 5stelle, che non hanno vinto.
O meglio, due forze politiche che hanno avuto un successo storico, che, però, nelle pieghe di questa legge elettorale, non si è trasformato automaticamente in un governo. Alla coalizione di centrodestra mancano più di una quarantina deputati e più di una ventina di senatori per avere una maggioranza. Ai grillini molti di più. Né i due vincitori, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, pensano ad un’alleanza. O meglio, Di Maio sarebbe disposto, nella foga di andare al governo.
Salvini, invece, non ci pensa proprio. Lo dice, lo ripete, lo giura. Semmai quell’eventualità, la possibilità di avere un altro forno, gli serve solo per radicare di più la sua leadership nel centrodestra. Per cui in questa partita che si apre tra il leghista, leader del partito più votato dello schieramento moderato, e il grillino, leader del primo partito italiano, vincerà chi utilizzerà meglio l’arte del compromesso. Cioè, dopo aver rastrellato voti nella palude di chi è entrato in Parlamento con l’idea di non lasciarlo presto e non vuole correre il rischio di un ritorno alle urne anticipato (ne servono troppi per raggiungere l’obiettivo), i due dovranno tentare di allargare la maggioranza verso altri gruppi (l’arcipelago di sinistra) e, per farlo ed essere convincenti, essere disposti anche a rinunciare alla premiership.
Potrebbe essere definito il paradosso «R»: cioè, tra i due avrà più possibilità di imporsi, chi, nel nome della governabilità, sarà disposto in questo turno a rinunciare a Palazzo Chigi. Forse può apparire assurdo, ma siamo entrati nella terza Repubblica, con regole che somigliano tanto a quelle della Prima. E i governi di coalizione siano «del presidente», «di scopo» o di «coalizione allargata», impongono sacrifici. L’interrogativo è lì, appeso anche perché è troppo presto (le crisi hanno una loro liturgia), ma se parli a Gennaro Migliore del Pd, di un governo con i grillini, ti risponde: «Per cominciare dovrebbero cambiare il nome del premier, non può certo essere Di Maio».
Una questione che compare anche nel centrodestra: anche lì sull’idea di allargare l’ipotetica maggioranza, magari con un nome diverso da quello del leader della Lega, Brunetta sospira: «Salvini ha vinto, ma ora deve dimostrare di essere uno statista. Deve mostrarsi moderato. Bisogna guadagnarsi l’appoggio esterno del Pd». Ma uno dei due sarebbe disposto a fare un sacrificio simile? Per ora appare molto, ma molto, complicato
. «Con Matteo – racconta Gianmarco Centinaio, fedelissimo di Salvini – non ne abbiamo parlato». Mentre la Meloni non ha dubbi: «A Matteo deve essere affidato l’incarico di formare il nuovo governo». Sull’altro versante, quello grillino, è più o meno la stessa cosa. «Per il momento – confida Bruno Marton, che per un pelo non è stato rieletto – nessun nome diverso da quello di Di Maio». «Fra cinque giorni – gli fa eco il sociologo Domenico De Masi, uno dei guru 5stelle – vedremo». Quindi, la situazione all’apparenza è congelata. Solo che, escluso l’accordo Lega-5stelle, per fare un governo è necessario interloquire con il Pd. In un sistema tripolare anche gli sconfitti hanno la loro tela da tessere. Ieri Renzi si è dimesso. «Non ho alternative – ha confidato ad un amico prima del grande gesto – se voglio immaginare un futuro». Ma le dimissioni non lo hanno tolto dal proscenio politico, anche perché il Pd, specie nei suoi gruppi parlamentari, è Renzi. E lui è sicuramente l’avversario più convinto dell’ipotesi di un’alleanza tra Pd e grillini.
«Per un accordo simile – ha spiegato – non hanno i numeri in Parlamento. Non riesco a capire chi potrà fare il governo a meno di non immaginare un accordo tra Berlusconi e i 5stelle. A me lui mi ha fatto incazzare. Per l’ennesima volta ha tradito i patti, dicendo che io ero morto. Ma, a parte questo, un accordo tra Pd e 5stelle non ci sarà. Io mi dimetto ma non vado in California. E parte la mia associazione. E mi chiedo: Salvini potrebbe appoggiare uno come Tajani?». Un ragionamento in itinere che tradotto appare più chiaro: Renzi, che resterà segretario del Pd per l’intera durata delle trattative di governo, non accetterà mai un’intesa tra Pd e 5stelle al costo di fare una «cosa» sua; mentre l’interlocuzione con il centrodestra potrà passare solo attraverso un candidato a Palazzo Chigi più moderato di Salvini.
Segnali che sono arrivati fino al centrodestra, ma non è detto che Salvini li raccolga. «Nella situazione data – è il pensiero di La Russa – basterebbe mettere in campo un personaggio di mediazione come Gianni Letta, ma il problema è che Salvini non vuole fare il governo. Di più, lui vorrebbe addirittura che 5stelle e Pd facessero maggioranza insieme, per diventare il leader dell’opposizione e provarci alle prossime elezioni». Un dubbio che nutre anche il Cav. Ieri i due si sono visti. Berlusconi ha riconosciuto la vittoria dell’alleato. Ha confermato il patto, ma sulle prospettive la dialettica è appena cominciata. Sul tavolo per Salvini potrebbe esserci, se si rendesse necessaria una sua rinuncia per formare un governo, il riconoscimento della sua leadership nello schieramento. «Può fare tutto – è l’idea di Brunetta -, può fare anche il ministro degli Esteri». Tante congetture, ma per ora il Quirinale si muove al buio. Nella logica della Prima Repubblica il capo dello Stato dovrebbe affidare l’incarico a chi ha più consenso in Parlamento. Se tutti i partiti del centrodestra facessero un solo nome per Palazzo Chigi, Mattarella non potrebbe non tenerne conto. Addirittura, è tornata in ballo l’ipotesi – tutta da verificare – di fare dei gruppi parlamentari unici. «Basterebbe anche – suggerisce Brunetta – andare al Quirinale tutti insieme, con un unico capo delegazione».
Ma poi c’è da vedere se lì sul Colle, qualcuno pensi che sia meglio dare una chance a Di Maio, sia pure formale, dandogli un incarico. Con la stessa logica con cui Mattarella ha gestito tra le polemiche, il «caso» della lista dei ministri inviata da Di Maio prima delle elezioni. La verità è che in questa fase tutti procedono a tentoni, nel buio. Forse per avere un po’ di luce, bisognerà attendere le elezioni dei presidenti di Camere e Senato. Sarà la prova generale per misurare tutto, a cominciare dal grado di compattezza del centrodestra. Paolo Romani ambisce al Senato, ma il favorito è il leghista Roberto Calderoli. «Al 90% sarà lui», scommette La Russa. E anche il depositario delle strategie del Cav, Gianni Letta, la pensa allo stesso modo. «Roberto ci tiene – osserva – e non vorrei che ai grillini venisse la voglia di eleggerlo con i loro voti, per disegnare una nuova maggioranza. Forse sarebbe meglio che lo proponessimo subito noi». È il primo segno di riconoscimento della centralità della Lega.
IL GIORNALE
This entry was posted on martedì, Marzo 6th, 2018 at 12:45 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.