Elezioni 2018: gli interessi differenti e il federatore che non c’è
La chiave per interpretare il futuro della politica italiana è contenuta nella geografia del voto: i Cinque Stelle vanno bene in molti luoghi ma «sfondano» nell’Italia meridionale, il centrodestra domina il Nord, il Pd resta insediato, pur avendo subito durissimi colpi anche lì, in alcune delle tradizionali, antiche, zone rosse. Anziché di III Repubblica è forse più appropriato parlare di «Repubblica senza federatore».
Limitando il discorso all’età democratica l’Italia ha sempre avuto bisogno di un federatore, ossia di una formazione politica capace di tenere insieme la Lombardia e la Sicilia, il Piemonte e la Campania, il Veneto e la Calabria, il Friuli-Venezia Giulia e la Sardegna. Per stemperare le tensioni fra Nord e Sud, per disporre di una camera di compensazione extraparlamentare, per assicurare un luogo di mediazione fra interessi territoriali divergenti.
Nell’età della guerra fredda, per un cinquantennio, fu la Democrazia Cristiana a svolgere il ruolo del federatore. In seguito quel ruolo passò, dapprima, a Silvio Berlusconi e al centrodestra. In seguito, diventò la principale posta in gioco nel duello fra centrodestra e centrosinistra. Il «partito della nazione» evocato da Matteo Renzi nei suoi giorni di gloria era precisamente, nelle intenzioni, il nuovo, emergente, federatore.
La caratteristica della politica italiana di oggi è che quel ruolo non appartiene più a nessuno. Non ci sono più camere di compensazione, le tensioni Nord/ Sud sono probabilmente destinate ad acutizzarsi, la «politica territoriale» (la lotta per la spartizione delle risorse fra i diversi territori) diventerà molto più visibile di un tempo, forse arriverà a dominare l’agenda parlamentare.
È certo che un gruppo politico fortemente meridionalizzato quale è oggi il movimento 5Stelle dovrà tentare di ridistribuire risorse verso il Sud: il reddito di cittadinanza è, al tempo stesso, un programma e una bandiera. È altrettanto certo che le zone produttive del Paese resisteranno a un simile tentativo di ridistribuzione della ricchezza e che di questa resistenza non potrà non farsi interprete una coalizione così nettamente «nordista» quale è il centrodestra.
Si noti, da questo punto di vista, la posizione paradossale in cui potrebbe trovarsi, da qui a poco, la Lega. Con Matteo Salvini essa ha abbandonato tanto il ruolo che Umberto Bossi le aveva assegnato di «sindacato territoriale», di partito preposto alla difesa degli interessi del Nord, quanto l’ideologia (secessionista-federalista) corrispondente. Salvini ha scelto di ridefinire la «ragione sociale» della Lega trasformandola in un movimento di tipo nazional-lepenista.
La scelta è stata pagante: ha permesso alla Lega di diventare il terzo partito superando Berlusconi e arrivando a una incollatura dal Pd. Per giunta, voti per la Lega ci sono stati anche in zone del Sud d’Italia ove un tempo nessun elettore aveva mai scelto quel partito. Ma è anche un fatto che la sua maggiore crescita si dà al Nord (oltre che in certe aree del Centro).
È quindi possibile che Salvini, pressato dalle circostanze, sia costretto a recuperare alcuni di quei temi «nordisti» che appartenevano all’epoca di Bossi e da lui accantonati. Se, come è probabile, entro non molto tempo, i 5Stelle dovranno premere per una ridistribuzione di risorse che premi i territori in cui hanno mietuto più consensi, difficilmente la Lega potrà evitare di opporsi. Poiché l’appetito vien mangiando è probabile che Salvini coltivi oggi la speranza (o l’illusione: si vedrà in seguito) di incamerare entro non molto tempo ampia parte dell’elettorato di Forza Italia. Ma allora non potrà che porsi a difesa, insieme alla stessa Forza Italia, degli interessi delle aree produttive del Nord e del Centro.
È il principale limite insito nell’uso della categoria «populismo»: impedisce di vedere che le varie formazioni in questo modo etichettate — come i 5Stelle e la Lega — dispongono spesso di bacini di consenso diversi, e finiscono per assumere la rappresentanza di interessi differenti.
Se, come qui si ipotizza, i conflitti territoriali acquisteranno, a causa dell’assenza di un federatore, grande rilievo e grande visibilità, allora è facile scommettere che i guai per lo sconfitto Partito democratico siano solo all’inizio. Perché se una parte del partito punterà ad allearsi con i 5Stelle, un’altra parte non ne vorrà proprio sapere. Anche se il suo peso nelle tradizionali roccaforti è in declino, esso non può certo spezzare i legami con luoghi (come quelli dell’Emilia e della Romagna) che per fisionomia economica ed interessi sono più prossimi alla Lombardia o al Veneto che a certe regioni del Sud. Le tensioni territoriali potrebbero perciò avere un ruolo non indifferente nel Pd del dopo-Renzi.
L’attuale «tripolarismo» italiano non taglia trasversalmente la Penisola, la divide piuttosto in zone, in blocchi regionali. Ciò aggiunge complicazione a complicazione per coloro che saranno impegnati nell’arduo tentativo di dare un governo al Paese. L’Italia è il contenitore di diverse Italie diversamente organizzate, diversamente funzionanti, e con domande, aspirazioni e interessi differenti. La vera arte di governo, qui da noi, è sempre consistita nella capacità di impedire che esse entrassero in rotta di collisione.
CORRIERE.IT