Pomigliano , dietro il boom dei 5 Stelle la fine del sogno di una Torino del Sud
Luigi Di Maio viene da Pomigliano, un paese che gli ha tributato onori da Cesare, e a cui è tornato nel giorno della vittoria, in un lodevole sfoggio di lealtà. Ha fatto bene a festeggiare lì – c’è infatti un filo non casuale tra Pomigliano, Luigi Di Maio e la fortuna elettorale dei pentastellati. Nelle cronache recenti il paese viene spesso descritto con il termine «periferia» e in questa scelta delle parole si misura tutta la distanza che il ceto intellettuale ha maturato con il territorio. Forse per capire perché il voto del Sud è andato ai cinquestelle basta raccontare qualcosa di più su questo centro urbano.
Lì a Pomigliano noi andavamo nel 1972. Ero studentessa con l’eskimo in pieno caos dell’università di Napoli occupata. Ci accalcavamo nelle Cinquecento, pacchi di volantini sulle ginocchia, nelle mattine umide delle città di mare, verso il nostro personale paradiso, il contatto con la classe operaia, la sede della rivoluzione.A Pomigliano, già allora uno dei poli industriali più grandi del Sud, c’era l’AlfaSud, gemella di Arese, rinata per l’opera degli azionisti Alfa Romeo (88%), Finmeccanica(10%) e Iri (2%), più Cassa del Mezzogiorno e Banco di Napoli. Il 28 aprile del 1968, alla posa della prima pietra c’era il presidente del Consiglio Aldo Moro.<
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A Pomigliano c’erano «le Fabbriche», quelle vere, metalmeccaniche, grandi, circondate da piazzali di cemento, fari gialli, cancelli e tornelli, da cui ogni otto ore una marea umana entrava e usciva, notte e giorno. Sembrava di stare a Torino, a Milano, e per noi era la prova che il Sud non era più una regione, ma era come tutto il resto del Paese. Anni dopo, negli anni 2000, quelle orgogliose fabbriche erano ridiventate un simbolo della vergogna del Sud. Finite irrilevanti, nella nuova era della globalizzazione, competizione con nuovi mercati del lavoro, erano piagate da assenteismo, calo di produttività, un assurdo numero di invalidi.
Pomigliano, diventa così il luogo di un’altra svolta politica: vi si svolge il primo referendum su un diverso contratto di lavoro voluto dall’amministratore della Fiat, per testare le acque di un nuovo ciclo di modernizzazione. Il referendum diventa Marchionne contro la Fiom dell’appena eletto Maurizio Landini. Lo scontro è in realtà tra la difesa di un mondo del lavoro finito, e le nuove flessibilità del lavoro odierno. La Fiom ne esce sconfitta: il 62 per cento degli operai vota sì. Quelle fabbriche oggi sono molto ridotte, e i primi a saperlo sono quelli che ci lavorano. Da quel mondo di speranze interrotte del Sud, dalla fine stessa della industrializzazione, nasce Luigi Di Maio.
Il Mezzogiorno è tornato negli ultimi anni il luogo in cui chi lavora è passato dal posto fisso, alla accettazione dei lavoretti vari. La sinistra cade con la fine del modello industriale con cui era nata. I M5S nascono nel mondo frammentato di un Sud in cui ognuno è sempre più solo di fronte alle proprie soluzioni di vita.
Non è dopotutto un grande mistero quello che è successo. È un mondo che finisce e uno che si riaggiusta.
Il fatto strano, colpevole se volete, è che questa svolta non è stata mai avvertita dal Pd, nemmeno nelle zone come queste, che erano dopotutto aree simbolo.
Di questa cecità vorrei fare un altro esempio. Da anni polemizzo, nel mio piccolo, ogni anno, con i dati nazionali sulla disoccupazione giovanile nel Sud: il 56% , cioè il doppio delle regioni settentrionali (2017, Istat); la cifra dei giovani inattivi, i Neet, è di 1,8 mln (Confindustria-Srm, 2017). Ma voi davvero credete che ci sia una popolazione al Sud della portata di milioni che se ne sta a casa? Se così fosse immaginate che segni dovremmo vedere di una catastrofe così grande.
Se venite al Sud, invece, non vi troverete nulla di paralizzato. Da anni il Sud rimane, anche nei dati statistici, una fucina di piccole attività, la reinvenzione del lavoro – dalla distribuzione delle mozzarelle fresche spedite ai grandi consumatori, tipo la Regina di Inghilterra, ai vinai che hanno inventato nuove marche e prodotti di gran successo, alle attività urbane di recupero e a quelle del turismo. Non vedrete in giro nessun giovane nel Sud con le mani in mano. Il fatto vero, che tutti sappiamo, è che quasi tutte queste nuove attività sono in nero. E dunque anche i suoi lavoratori non sono emersi. Essi vivono nel mercato parallelo della evasione fiscale, delle regole aggirate, dei pagamenti cash. E che la malavita, la corruzione, trovi un suo forte posto in questo mondo non è sorprendente.
Il concetto di Sud fu fissato nella coscienza nazionale all’epoca del governo Giolitti, con le leggi speciali del 1904 che finanziarono la industrializzazione del Sud. Lo Stato arriva in questa regione fin dall’inizio come elargitore di denaro, padrone e padre, la cui richiesta di voti, in cambio di tanto interesse, diventa il paradigma di un secondo livello della politica. Negli anni questa dipendenza e scambio diventerà sempre più pressante, e imbarazzantemente familista. Producendo il fenomeno che anche oggi scontiamo di un Sud politico avvitato intorno a una casta di mandarini, cacicchi che tengono sotto scacco gli apparati nazionali dei partiti.
Eccetto che lo Stato da anni non ha più soldi, e la rete dei signori del voto meridionale è diventata tanto più impotente quanto più ingombrante.
I meridionali queste cose le sanno. E da popolo furbo, ambizioso e industrioso, quali sono, hanno continuato la loro strada, sentendosi sempre meno legati alle lealtà precedenti, e sempre più desiderosi di trovarne di nuove.
Il voto ai M5S è il segnale più recente di questo loro distacco. E, se mi si permette un paragone azzardato, in fondo questo è il ritratto, magistralmente raccontato da J.D Vance, nel libro Hillbilly Elegy, anche del Sud degli Stati Uniti che ha votato Trump. È tutto, come si vede, abbastanza semplice. Non ci sono mai misteri in politica. Ma una lezione viene da questa storia: i pentastellati che oggi indossano il lauro del vincitore, devono stare ben attenti a non sedersi su quello stesso alloro.
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