L’8 marzo e il lavoro. Ragazze, c’è molto da fare

Lucrezia Reichlin

Otto marzo, giornata delle donne. Quanta retorica e quanta poca comprensione di quella che un tempo si chiamava «la questione femminile». Il problema è complesso e multidimensionale, ma si deve analizzare partendo dal lavoro. Non solo perché dal lavoro dipende l’indipendenza economica, fattore necessario all’emancipazione, ma soprattutto perché al lavoro è legata la propria identità. Per le donne non è sempre stato così, ma lo è sempre più oggi.

L’evoluzione della diseguaglianza tra sessi è legata a quella dello sviluppo economico, ma il legame non è lineare. Claudia Goldin, forse la maggiore storica economica del lavoro femminile, dimostra che la partecipazione alla forza lavoro — cioè la percentuale di donne sulla popolazione femminile con più di quindici anni di età che sono occupate o in ricerca attiva di lavoro — è alta quando il reddito pro capite è basso, diminuisce al crescere del benessere e torna ad aumentare ad alti livelli di reddito. Le donne povere lavorano per necessità. In Ghana la partecipazione è al 74 per cento, negli Stati Uniti solo al 56%. Nei Paesi avanzati era alta nella prima metà del secolo scorso perché legata al lavoro a bassa specializzazione nelle fabbriche della seconda rivoluzione industriale e poi alla necessità della guerra. Ma dopo la Seconda guerra mondiale le donne sono tornate a casa. Tra gli anni Quaranta e Sessanta quando lavoravano lo facevano in modo saltuario, per portare un complemento al reddito familiare.

È solo dagli anni Settanta che le donne cominciano a considerare il lavoro come fatto identitario, qualcosa che non si fa saltuariamente, ma che richiede pianificazione, investimento in scolarizzazione, scelte di studi che non siano solo motivate da una generica acquisizione culturale, ma dall’obbiettivo di una carriera professionale. Con le ragazze degli anni Settanta comincia questa vera e propria rivoluzione: il lavoro per le donne diventa, come per gli uomini, parte della loro identità. Questa rivoluzione si accompagna a grandi trasformazioni della vita familiare e a conquiste importanti: la contraccezione, il divorzio, le leggi contro la discriminazione. Come tutte le trasformazioni il processo non è indolore, comporta aumenti di conflittualità intra familiari, nuove fragilità femminili, ritorni indietro, grandi dubbi identitari.

Dove siamo oggi, noi ragazze degli anni Settanta, reduci ammaccate di questa rivoluzione e cosa lasciamo alle nostre figlie? Negli Stati Uniti, dove l’entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro ha anticipato quella europea, dagli anni Novanta si è arrivati a uno stallo e non ci si muove da un tasso di partecipazione del 56%. Rimane anche il gap salariale. Quest’ultimo non è dovuto alla discriminazione bensì a una preferenza delle donne per occupazioni che non richiedano una inflessibilità delle ore di lavoro. Il gap è infatti più alto nel settore finanziario, dove una carriera di successo richiede disponibilità totale e inflessibilità del tempo dedicato al lavoro, minore nell’attività scientifica. Il gap non è percepibile all’uscita dell’università, ma si manifesta dopo 10-15 anni di carriera. Rivela una asimmetria tra uomini e donne nel loro ruolo nella vita familiare. Asimmetria, legata non alla procreazione, ma alla maggiore propensione delle donne a farsi carico di chi, nella famiglia, ha bisogno di assistenza. Non è chiaro se questa sia una preferenza innata o la conseguenza di tratti culturali che persistono anche per il minore potere contrattuale della donna all’interno della famiglia. La ricerca mostra che queste preferenze sono sì persistenti, ma evolvono nel tempo in relazione al manifestarsi di nuovi modelli esistenziali e di politiche familiari e del lavoro che favoriscono un maggiore equilibrio tra uomini e donne nella erogazione dei servizi di assistenza informali. C’è qui quindi un grande spazio di azione politica. Il plateau raggiunto negli anni Novanta non è un limite naturale, ma qualcosa che si può spostare.

Veniamo ora all’Italia. Il nostro Paese ha il più basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro dell’Unione Europea. Oggi siamo al 39,5% contro il 55% della Germania, il 51% della Francia e il 45% della Grecia. Il paradosso italiano è che questo basso tasso di partecipazione si accompagna a uno dei più bassi tassi di fecondità del mondo. Daniela Del Boca, una delle maggiori studiose italiane sul tema, attribuisce questo fenomeno alle scarse politiche di welfare, altri alla bassa protezione occupazionale che scoraggia le donne a rientrare nel mondo del lavoro dopo il primo figlio. Ma non si può non sospettare che ci sia qualcosa di più, che il nostro Paese sia affetto anche da un problema culturale, da una misoginia generalizzata forse anche motivata dal malessere che le trasformazioni di cui parlavo hanno creato nei rapporti tra uomo e donna in una società fin ancora di recente molto tradizionale.

I modelli femminili proposti dai media continuano a essere offensivi e la scarsa presenza femminile in ruoli chiave dell’economia, della politica e della finanza sottraggono modelli di riferimento alle giovani donne. Si direbbe che in Italia il successo femminile, quando avviene, crea non solo risentimento ma addirittura sgomento. Basti pensare come Boldrini e Boschi sono state trattate: un accanimento personale volto a distruggere e a intimorire bene al di là del normale scontro politico. Stupisce anche come in Italia si sia parlato poco dell’effetto Weinstein e dei dati sconcertanti che continuano a emergere ovunque sulle molestie sessuali nel mondo del lavoro.

Tra gli intellettuali anche illuminati prevale un cinismo italico che si mischia a una grande ignoranza del problema. Ma il progresso del nostro Paese, la sua capacità di selezionare e trattenere talenti in tutte le sfere della società è legata al progresso delle donne. Cambiare la situazione richiede almeno tre cose: accettare che il problema esiste, capire che va affrontato con politiche attive e comprendere che il progresso delle donne è complementare al progresso di tutti. Innanzitutto, la valorizzazione del lavoro a tutti i livelli incoraggia le donne in ogni segmento occupazionale e rende più facile combinare procreazione e lavoro. Ragionare di donne significa ragionare sul futuro del lavoro. Ma non solo. L’insieme di regole barocche — de jure e de facto — con cui in Italia si seleziona la classe dirigente e la mancanza di trasparenza di nomine e cooptazioni in posti chiave, inibisce la possibilità di pescare in pool di talenti ampi e quindi di beneficiare della potenzialità del nostro capitale umano, maschile e femminile. Ma scoraggia soprattutto le donne, che in un sistema del genere rinunciano in partenza perché tipicamente tagliate fuori dai «boys club» e dai meccanismi informali di cooptazione.

La fragilità della posizione delle donne nella società italiana è l’indizio di un malessere più generale. Combattere per i diritti delle donne significa anche battersi per una società più inclusiva per tutti. Ma non illudiamoci: la strada, per noi, continuerà ad avere una sua specifica difficoltà e avrà bisogno di politiche dedicate che la rendano meno impervia. Forza ragazze, c’è ancora molto da fare e non se ne deve parlare solo l’otto marzo.

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