Davide Astori, l’enorme folla per il calciatore gentile
Ce li immaginiamo come guerrieri della domenica, esseri diversi, superiori, che hanno i soldi, le folle ai loro piedi, le emozioni forti, anche se a pensarci bene poi tutto finisce così in fretta, persino per loro. Ma in questi giorni la commozione per la perdita di Davide Astori è stata un rumore di fondo continuo e condiviso. Poteva essere la lettera che gli ha scritto il compagno di squadra Riccardo Saponara, «Capitano, perché non sei sceso a fare colazione insieme a tutti noi?», le sue domande semplici e senza risposta dalla quali emergeva lo smarrimento di chi si trova davanti a un evento così definitivo e inspiegabile. Poteva essere l’aneddoto carpito da uno dei tanti speciali televisivi a lui dedicati, tutti fatti con un rispetto e una sensibilità non scontate. «Posso usare quella macchina?» chiedeva un giovanissimo Astori al veterano Rino Gattuso nella palestra di Milanello. Ringhio assentiva, quasi sorpreso dalla timidezza e dell’educazione. Una, due, tre volte. Fino a quando l’attuale allenatore del Milan gli disse basta, «non chiedere più per favore, sei a casa tua».
Come vorremmo il mondo del calcio
Davvero, c’è qualcosa in questa storia che va oltre le sue dimensioni «normali», e le virgolette stanno lì per pudore, per rispetto. Come se ci avessimo visto dentro l’immagine di come vorremmo essere noi, e di come vorremmo che fosse il mondo del nostro calcio. Ogni volta che vediamo le immagini degli altri, la partita del basket Nba che si ferma per permettere al bimbo malato di leucemia di entrare e fare canestro con la maglia della squadra del cuore, ci viene facile lo sconfortante paragone con i «devi morire», con i campioni dalle dichiarazioni fotocopia, si chiamino Messi, Ronaldo o Pogba, così diverse dalle prese di posizione contro il razzismo di Lebron James e di Stephen Curry.
Un bravo giocatore e una brava persona
Davide Astori non era un campione, ma un bravo giocatore e una brava persona. Era uno che con i soldi guadagnati a Cagliari aveva comprato una gelateria e ogni Natale spediva un pacco di sorbetti ai suoi ex compagni di squadra. Era uno che faceva beneficenza senza dirlo, e si impegnava contro il razzismo. Noi non lo sapevamo, ma quelli del calcio invece sì. E per una volta ce lo hanno fatto capire. Con le parole, con i gesti. Luca Antonelli, una riserva del Milan, suo compagno nelle giovanili, è rimasto tre ore nella camera ardente. Non se ne voleva più andare. Quando lo hanno convinto a farlo, all’uscita ha incrociato il gruppo degli argentini della Fiorentina, tra i quali c’era il Cholito Simeone, figlio di uno dei più grandi «cattivi» della storia del calcio, che ci stavano ritornando. Il rude Giorgio Chiellini è uno dei giocatori più detestati da chi non è juventino. Mercoledì sera, dopo averlo sentito dire cose bellissime e profonde appena finita la partita con il Tottenham, mentre tratteneva a stento le lacrime, anche i suoi detrattori si saranno fatti un paio di domande. Sul nostro modo di vivere lo sport, e sui facili giudizi che ne conseguono. Niente è come sembra, mai. Neppure nel nostro calcio.
Tanto silenzio
Ieri mattina c’era tanta gente in piazza Santa Croce, e c’è stato anche tanto silenzio, che poi è la miglior forma di rispetto possibile. Gianluigi Buffon con gli occhi rossi non solo per la stanchezza ha risposto agli applausi che hanno accolto il suo arrivo invitando a non fare rumore, siamo tutti uguali, nel dolore non c’è differenza o status. Daniele De Rossi sembrava fatto di pietra, stava così male che il suo allenatore ha detto poi che non sa se domani lo farà scendere in campo.
«Il miglior compagno di squadra»
«Tua mamma, tuo padre, devono sapere che non hanno sbagliato nulla con te. Sei esattamente il figlio e il fratello che chiunque vorrebbe avere. Sei il miglior compagno di squadra che un ragazzo potrebbe sognare». Certe volte la verità è semplice come le parole di Milan Badelj, centrocampista croato della Fiorentina. Nella reazione delle tante persone che si sono commosse senza una ragione particolare, dei suoi colleghi, dei suoi compagni di squadra attuali e passati forse si nasconde un segreto della vita.
Amava il proprio lavoro
Il capitano della Fiorentina amava quel che faceva, e amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra, come scrisse Primo Levi. Poi cercava di essere una persona decente, un buon marito e un buon padre. L’unico segreto è questo. L’ambiente dove era cresciuto e diventato adulto lo ha riconosciuto soprattutto come uno che cercava di stare bene al mondo e come tale lo ha fatto sentire agli altri che sapevano poco di lui. L’ultimo ciao a Davide Astori è stato una promessa di vita. Per il calcio italiano, e non solo.