Comincia il “Pd factor”. Zingaretti-Delrio-Calenda si giocano il dopo Renzi
C’è chi – pur smentendo di volerlo fare – già parla da leader in pectore. Chi butta lì tra le righe, a sorpresa, che «non esclude» di candidarsi alle primarie.
E chi tace e tiene le carte coperte, anche se il suo nome viene fatto circolare.
Alla vigilia della Direzione Pd di lunedì, dove verranno ufficializzate le dimissioni di Matteo Renzi e si avvierà («Speriamo senza spargimenti di sangue», dice chi segue le trattative) la successione, si contano già tre candidati alla segreteria: Carlo Calenda (benedetto, si dice, da padri nobili come Prodi, Veltroni e Rutelli che hanno fretta di chiudere la stagione renziana, e dal grande centro gentiloniano); Nicola Zingaretti (ben visto dalla sinistra) e Graziano Delrio (spinto dai renziani). Il sindaco di Milano Sala teme che scatti «la lotta tra galli, e non è il momento».
Al di là dei nomi, tutto è ancora nebuloso: il percorso, i tempi, le modalità di elezione: nomina in Assemblea nazionale, ad aprile, o in un congresso con primarie a inizio 2019, prima delle Europee? Né, ovviamente, è chiaro in che scenario si inserirà la scelta del leader Pd: opposizione e basta, accordi con questo o quel polo, governi «di scopo», elezioni ravvicinate: mistero.
Una cosa però è certa: dopo la batosta, il Pd deve riorganizzarsi in fretta e non restare acefalo. La campagna elettorale di Calenda è già partita: ieri il ministro si è presentato alla storica sezione del centro di Roma cui si è iscritto, e ha arringato la piccola folla di iscritti, invitando con metafore churchilliane a salvare il Pd: «Serve lo spirito di Dunkerque: ognuno prenda la sua barchetta e andiamo a tirare fuori le truppe dalla spiaggia». Spiega che «sarei un buffone» a candidarsi da neo-iscritto, ma promette di lavorare alla «ricostruzione del Pd, perché se non c’è il Pd è in pericolo l’Italia».
Ma la novità di ieri è la (mezza) apertura di Zingaretti alla corsa per la leadership. Sparata nel titolo dell’intervista a Repubblica, assai più cauta nel testo, ma fatta nel nome di una «rigenerazione della sinistra». Zingaretti ha appena vinto, in controtendenza, le regionali del Lazio e rivendica il «modello» ulivista della sua coalizione che «ha unito tutta la sinistra. Abbiamo fatto l’accordo con Liberi e uguali, avevamo sindaci, liste civiche e, soprattutto, giovani. È un modello che vorrei riproporre a livello nazionale».
Si eccitano e applaudono quelli di Leu, che non sanno di che morte morire dopo l’annichilimento elettorale, e cercano zattere di salvataggio per tornare in area Pd. Raccontano i maligni che Zingaretti temesse molto un immediato endorsement di Bersani e Grasso, che avrebbe rischiato di essere un bacio della morte, ma il pericolo è stato schivato.
Zingaretti ha vinto, ma non ha maggioranza. Così, spiegano i suoi, la minaccia di andarsene a fare le primarie serve anche a spaventare il Consiglio regionale, facendo capire che non starà appeso a un paio di voti da contrattare ogni volta. Quanto alla politica nazionale, «il Pd deve stare all’opposizione», dice. Però in casa Cinque stelle qualcuno spera in lui per aprire un dialogo con il Pd: appena rieletto, Zingaretti ha cercato la sindaca di Roma Virginia Raggi per un incontro istituzionale di prammatica. Lei, nella sua migliore tradizione, non si è fatta trovare. Ma i vertici della Casaleggio la hanno subito richiamata aspramente all’ordine, e poche ore dopo Raggi ha chiamato obbediente il governatore, mettendosi a disposizione.
IL GIORNALE