Come si blindano le intercettazioni «scomode»
di Milena Gabanelli e Giuseppe Guastella
Perché è stata fatta la legge
«Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno», disse il ministro della Giustizia Andrea Orlando dopo l’approvazione del decreto legislativo sulla cui delega il governo mise la fiducia. L’obiettivo era di impedire che le intercettazioni di conversazioni che riguardano particolari della privacy delle persone continuassero a finire sui giornali, come se si trattasse di un fenomeno così diffuso da richiedere un intervento urgente, guarda caso a poco più di due mesi dalle elezioni del 4 marzo. A dire il vero, a parte rari episodi spesso legati a veri e propri abusi e reati, la stampa non fa che pubblicare le intercettazioni depositate agli atti e già depurate dei dati «sensibili» e delle conversazioni che non riguardano strettamente l‘indagine. Invece, in nome di una urgente lotta alla «gogna mediatica», c’è il rischio concreto di limitare la libertà di stampa, specie su procedimenti che coinvolgono politici e potenti. Il problema è che la nuova procedura rischia di restringere anche il campo visivo del pubblico ministero e degli avvocati difensori.
Il numero delle intercettazioni e i costi
Il quadro è questo: il numero delle intercettazioni in Italia è in calo, così come la spesa sostenuta dal ministero della Giustizia per pagarle. Si è passati dalle 141.169 del 2013 alle 130.746 del 2016, ultimo dato a disposizione. Di queste, quelle telefoniche sono la maggioranza (110.688) seguite da quelle ambientali (15.984) e «altre», come i «captatori informatici» o «trojan» (4.074). I numeri si riferiscono ai «bersagli» colpiti e non alle persone, che sono molto meno. Un sospettato per corruzione che, ad esempio, usa un cellulare, un pc, un tablet, ha una macchina, un ufficio e una casa si traduce in sei bersagli da mettere sotto controllo. E i criminali, spesso, ne hanno molti di più.
Chi stabilisce se una conversazione è o non è rilevante?
La riforma sembra non piacere a nessuno, almeno non tutta. È stato introdotto il divieto di trascrizione anche sommaria delle intercettazioni non rilevanti — quelle, cioè, che riguardano i dati sensibili (preferenze sessuali, vizi privati, salute, opinioni politiche, religione) — o delle conversazioni tra l’indagato e il suo difensore. A decidere se una conversazione è rilevante è la polizia giudiziaria, che si limita a scrivere nel brogliaccio (l’elenco delle conversazioni intercettate con il sunto di quelle rilevanti) soltanto ora, data e dispositivo con il quale sono state eseguite. Se ha dei dubbi chiama il magistrato, il quale valuta e, in caso la pensi in modo diverso, deve emettere un decreto che autorizza la trascrizione. Il rischio è che una conversazione che è irrilevante, ma molto compromettente per chi parla, non arrivi al pm ma resti solo a conoscenza dell’agente che l’ha sentita e che potrebbe rivelarla ai suoi superiori (come gli impone una norma varata l’anno scorso e molto discussa). E chi può garantire che a qualcuno non possa venire in mente di usarla in modo distorto, magari per un ricatto?
C’è chi, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, ha parlato di «strapotere della polizia giudiziaria» aggiungendo che «diventa impossibile un vero controllo da parte del pm» e che «non dare copia agli avvocati di tutto il materiale intercettato è un vulnus»; mentre il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato sostiene che se c’è un rischio di sottovalutare le conversazioni di interesse, c’è anche il rischio di ridurre la circolazione delle informazioni tra le procure.
Cosa cambia a partire dal 26 luglio
Gli atti andranno conservati in un archivio riservato gestito «sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica, con modalità tali da assicurare la tutela del segreto». Se gli avvocati vogliono accedere all’archivio per capire se ci sono intercettazioni che non sono state usate dall’accusa, ma che potrebbero essere utili alla difesa del loro assistito, le possono solo ascoltare, senza copiarle o trascriverle. Tutto questo apre un’autostrada di problemi per procure, avvocati e anche giornalisti, mentre i dati restano paradossalmente a totale disposizione delle società private che fanno le intercettazioni e che, come si è successo almeno in un caso, potrebbero anche usarli per fini non proprio leciti.
Intervenendo a Milano ad un convegno organizzato da Unicost — la corrente più rappresentativa nella magistratura che ha chiesto il differimento dell’entrata in vigore della norma — il capo della locale procura, Francesco Greco, ha detto chiaramente che per luglio non sarà possibile allestire l’archivio. «Forse abbiamo individuato un luogo fisico nel quale non potranno andare più di 15 postazioni, ma ce ne vorrebbero molte di più» ha esordito spiegando che mancano server pc e software. «Non abbiamo il personale che sappia usare questi nuovi sistemi e che sorvegli l’ingresso degli avvocati, che non si sa se bene se devono essere perquisiti». A tutto questo deve provvedere il Ministero. Pare, comunque, che si stia carcando una soluzione condivisa. Greco ha detto che i procuratori sono «sconcertati» per «problemi che consiglierebbero un ministro più attento e un legislatore più accorto a rinviare l’applicazione» e ha chiesto l’intervento del Csm. Dal Ministero, invece, assicurano che tutto procede per essere pronti per il 26 luglio e che è stato inviato al garante della privacy il decreto sull’archivio riservato.
Avvocati sul piede di guerra
Anche gli avvocati sono sul piede di guerra. Se plaudono alla «condivisibile esigenza di evitare le oramai intollerabili fughe di notizie», sono preoccupati per la compressione del diritto di difesa. Solo un imputato con grandi mezzi economici potrebbe permettersi uno stuolo di legali che, armati della sola memoria da Pico della Mirandola, in massimo 20 giorni scandaglino ore e ore di intercettazioni per trovare quella che magari salva il cliente. C’è poi la questione del «trojan», il virus informatico che può essere inoculato dagli investigatori negli smartphone copiandone il contenuto e attivando microfoni e telecamere. È uno strumento molto invasivo per la libertà delle persone che era usato quasi esclusivamente per delitti di mafia e di terrorismo, ma che ora la nuova normativa estende anche ad altri reati. Ebbene, le linee guida sull’utilizzo di questo strumento non sono ancora chiare. La legge non dice nulla invece sui sequestri di telefonini o computer: dentro c’è tutta la tua vita, i tuoi vizi e debolezze. Oggi ne viene fatta copia integrale che finisce poi nel fascicolo e agli avvocati. E se c’è materiale «scomodo» può finire giornali.
Basta applicare le leggi che ci sono già
La legge non dice nulla nemmeno sul destino dell’enorme quantità di ore di intercettazioni e filmati conservati nelle stanze riservate delle procure: rimangono nelle disponibilità delle società private di intercettazioni e non si sa se andranno distrutte e quando. Insomma l’intento della nuova normativa di disciplinare l’indisciplinabile, aumenterà i costi e i passaggi burocratici, con il rischio di allungare tempi e costi dei processi. Sarebbe più realistico applicare le leggi che già esistono, ovvero la deontologia professionale per i giornalisti e le sanzioni per i magistrati che abusano delle intercettazioni.
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