Le Presidenze delle Camere fanno gola perché sono un posto fisso

di Michele Ainis

Eccoci infine ai nastri di partenza. Questa settimana s’insedia il Parlamento, dopo di che interverrà la scelta su cui si giocano le sorti della XVIII legislatura: l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Il passaggio cruciale, dal quale dipende tutto il resto. O no? No, la vera decisione cade adesso, con l’elezione dei presidenti delle Camere. O meglio, d’un presidente soprattutto: quello del Senato. Sarà lui (lei) a dominare la scena, e per una somma di ragioni.Primo: in un paio di giorni verrà eletto, mentre il suo dirimpettaio di Montecitorio potrebbe attendere anche un paio di mesi. C’è una differente procedura, infatti, nei regolamenti di Camera e Senato. Fra i deputati serve la maggioranza dei due terzi, che in caso d’insuccesso scende alla maggioranza assoluta dei voti: 316 schede, se non ci sono assenze. Con questi chiari di luna, un traguardo alto quanto l’Everest. Fra i senatori, viceversa, le regole pretendono la maggioranza assoluta (prima dei componenti, poi dei votanti), tuttavia – dopo tre fumate bianche – al quarto scrutinio s’affidano al ballottaggio fra i due candidati più votati. Uno vince, l’altro perde. Come accadde a Spadolini, sconfitto per un solo voto da Scognamiglio nel 1994.

Secondo: proprio in virtù di queste regole, a destra già cantano vittoria. Con 137 seggi la maggioranza relativa è verdazzurra, dunque per gli altri al ballottaggio non c’è scampo. Sicuro? Se il Pd e i 5 Stelle decidessero di sommare i propri voti, conterebbero su 171 senatori; e la tombola sarebbe tutta loro. Ecco perché questa partita può decidere il campionato del governo: perché sarà il banco di prova d’alleanze e inimicizie, di matrimoni e di divorzi.

Terzo: il nuovo presidente del Senato diventerà il supplente del capo dello Stato, però anche il suo assistente. Quid iuris, infatti, se perdura lo stallo fra i partiti? Semplice: dopo un primo giro di consultazioni senza risultati, Mattarella affida un mandato esplorativo all’inquilino di palazzo Madama. Continua tu, gli dice, e poi fammi sapere. D’altronde i precedenti sono più lunghi d’un lenzuolo: dall’incarico conferito a Merzagora da Gronchi (1957) a quello ricevuto da Morlino su iniziativa di Pertini (1983), o da Marini nelle mani di Napolitano (2008).

Quest’ultimo provò anche a mettersi in proprio, formando un gabinetto in cui l’esploratore coincidesse con l’esplorato. Gli andò male, però dieci anni più tardi potrebbe farcela il suo successore: dopotutto quella doppia carica (presidente del Senato e titolare d’un mandato esplorativo) disegna al contempo un ponte fra governo e Parlamento. Una gamba di qua e una gamba di là, come Nettuno sullo stretto di Messina.

Quarto: chi scalerà il Senato si siederà su una poltrona per molti versi più pesante della stessa presidenza del Consiglio. Intanto si tratta della seconda carica dello Stato, mentre il nostro Premier è soltanto in quarta posizione. Dura cinque anni, sicché nell’ultima legislatura Grasso ha visto nascere e morire tre governi: insomma è un posto fisso, quando a palazzo Chigi vige il precariato. Infine, le dimissioni dalla presidenza di un’assemblea parlamentare sono possibili ma sommamente improbabili, dato che nell’Italia repubblicana si contano sulle dita d’una mano: Saragat nel 1947, Merzagora nel 1967, Pertini nel 1969 e nel 1975, Fanfani nel 1973. Ed è vietata la mozione di sfiducia, come testimonia la vicenda che coinvolse nel 2010 Fini, presidente della Camera ormai inviso al suo stesso schieramento.

Quinto: il caso di Gianfranco Fini non è affatto isolato. Dalle rampogne di Ingrao contro il governo Andreotti (gennaio 1977) a quelle di Bertinotti contro il governo Prodi (dicembre 2007), le frizioni con l’esecutivo in carica sono state innumerevoli. Dallo scranno più alto della Camera, ma altresì da quello del Senato. Anzi: quest’ultima postazione è riuscita a trasformare un ex magistrato eletto per la prima volta in Parlamento – Pietro Grasso – in un leader chiamato per acclamazione alla guida d’un partito. Accade perché il presidente di palazzo Madama acquista fin da subito uno spessore politico, oltre che istituzionale. E così diventa un asso pigliatutto, specie quando le carte sono scompigliate. È già successo, succederà di nuovo.

L’ESPRESSO

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