A Roma la mafia c’è: chiesti 26 anni per Massimo Carminati

di Floriana Bulfon

Liberarci dai pregiudizi», quelli di «un tribunale distante dalla realtà criminale». Abituato ai film di Francis Ford Coppola, alle immagini de ‘il Padrino’. E’ la critica del pm Giuseppe Cascini ai giudici di primo grado. A Roma la mafia c’è, tanto che la procura generale chiede 26 anni e 6 mesi per Massimo Carminati, 24 per il suo braccio destro Riccardo Brugia e 25 anni e 9 mesi per il ras delle cooperative rosse Salvatore Buzzi.

«Perché le associazioni criminali non si costituiscono con uno statuto dal notaio», tuona Cascini. Non si tratta quindi di due organizzazioni distinte, una che corrompe e l’altra che fa estorsioni. E’ una realtà unitaria. Carminati è un boss «così lo chiamano i criminali e gli obbediscono in virtù del potere criminale che gli riconoscono. Questa è mafia». E’ la forza di intimidazione che crea assoggettamento. Quella per cui tutte le vittime non denunciano e chiamate a testimoniare balbettano. La paura ha spinto alcuni di loro a chiedere persino di spostare il video che riprende Carminati in collegamento dal carcere. «Queste sono persone che si rivalgono contro», ha ammesso il narco-fascista Filippo Maria Macchi. Pur di non sedere al banco dei testimoni s’è inventato prima una malattia e poi la morte di un parente.

Eppure per il tribunale non è sufficiente, non si tratta di mafia. La procura generale rievoca un gruppo trapiantato a Nettuno, lungo il litorale laziale. Si chiamano Gallace e sono calabresi. Non taglieggiano i cantieri, non chiedono il pizzo, si occupano di traffico internazionale di droga e hanno come obiettivo principale quello di mettere le mani sul denaro pubblico. Il comune di Nettuno è stato sciolto per mafia e i Gallace accusati di 416bis. Per loro nessuno ha avuto dei dubbi. La Cassazione del resto afferma principi netti, non ricordati dal Tribunale.  Nei mesi scorsi ha annullato alcune sentenze che escludevano il reato di mafia per le nuove forme di criminalità ritenute «a bassa potenzialità intimidatrice». È successo anche a ottobre, quando ha fatto riaprire il processo al clan Fasciani di Ostia, quello che la stessa Corte d’appello di oggi aveva derubricato a semplice banda di criminali.

Il valore aggiunto di Carminati per Buzzi è la capacità di regolare i rapporti con la riserva di violenza. A spiegarcelo è proprio il ‘cecato’. Sostiene intercettato che in cambio di protezione «faranno a mezzi» negli affari e Buzzi ne è compiaciuto perché Carminati non ha neanche bisogno di picchiare. La sua filosofia è quella del «che te serve?» con l’avvertimento finale: «te lo faccio io» quel lavoro, ma «se poi vengo a sapere che te lo fa un altro, è ’na cosa sgradevole». Un’evocazione delle possibili conseguenze e delle capacità criminali. Il metodo mafioso è anche quello silente: non ha bisogno di ricorrere a forme eclatanti per intimidire. E’ fondato sul rispetto, quello che per il pm Luca Tescaroli la sentenza di primo grado non considera. «Non rispetti gli accordi? Ma tu lo sai chi sono io? Ti ricordi da dove vengo?» sottolineava Carminati. La fedina penale da esibire a garanzia per le intese. Come quelle stilate con la ‘ndrangheta. L’appello è anche contro l’assoluzione di due imputati, perché «si è passati da Buzzi che aveva dovuto ‘mettersi a posto’ con l’emissario della potente ndrina dei Mancuso, utilizzando mezzi e persone della famiglia per i suoi affari con i migrati in Calabria, a una collaborazione in territorio romano» evidenzia Tescaroli. Con tanto di autorizzazione di Carminati. La ‘ndrangheta non ha dubbi, riconosce l’associazione mafia capitale.  Dialogano alla pari, un patto di do ut des fondato proprio sul rispetto mafioso.

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I quattro re di Roma

Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici

Nell’aula si finisce a parlare anche de l’inchiesta de l’Espresso, quella in cui Carminati veniva indicato come uno dei quattro re di Roma. Intercettato con Brugia all’epoca commentava: «sul nostro lavoro… sono pure cose buone… Se sentono tranquilli». Essere indicati come criminali ha i suoi vantaggi.
Quell’inchiesta, ricorda il pm Cascini, «del dicembre 2012, per la quale secondo l’avvocato Naso saremmo stati noi a darla al giornalista, è stata pubblicata all’inizio delle attività. Come Procura che interesse avremmo avuto?». L’avvocato Naso è dietro di lui. Continua a bofonchiare, cerca di interromperlo. Brugia, ormai agli arresti domiciliari, è seduto accanto.  Sfoggia un dolce vita nero e scuote la testa. Carminati in collegamento dal carcere di Opera prende appunti.

Tra timori e provocazioni si dibatte ancora se il ‘mondo di mezzo’ sia mafia. La sentenza è prevista per settembre, di certo però le motivazioni portate oggi nell’aula bunker di Rebbibia colpiscono tutti quelli che hanno esultato davanti alle condanne per semplice corruzione.

L’ESPRESSO

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