Tristi come una Pasqua

di Marcello Veneziani

Felici come una Pasqua, si diceva una volta. Perché in effetti Pasqua è sempre stata un’esplosione di vita naturale e soprannaturale, civile ed alimentare. Esplode la vita da un Sepolcro, con la Resurrezione di Cristo, ma esplode la vita anche da un inverno e i vestiti si annunciano leggeri, come i modi di vivere; la natura fiorisce e il mare annuisce, mentre nei paesi riesplode lo struscio, da quello sacro, perché le processioni pasquali inaugurano la stagione delle feste di strada, a quello profano perché il passeggio torna al centro della vita di provincia e non solo. E a casa trionfano ciambelle e scarcelle, cartellate, benedetti e tielle, per dirla col lessico paesano.

È un quadro pasquale fuori dal tempo, che riposa nei fondali della memoria di chi ha superato la soglia dell’anzianità o di chi si è attardato nei paesi che più lentamente hanno dismesso le loro tradizioni. La Pasqua presente è apolide e vacanziera, pasqua di viaggio o di vita ordinaria; si è logorato il significato speciale di Pasqua. Anche se talvolta risale dentro di noi questa nostalgia della Pasqua d’infanzia, una specie di desiderio di tornare alla nostra originaria Isola di Pasqua.

È quel che mi è accaduto tornando in Puglia alla casa d’origine. Ho ritrovato sul lettone matrimoniale di mia madre e mio padre, il Gesù benedicente che si sporge sul letto, col cuore che Gli esplode nel petto. È un’Icona che mi ha accompagnato sin dalla prima infanzia, figura vivente perché fuoruscendo dal quadro, in rilievo, dava l’impressione, soprattutto a un bambino, di essere vivo e vigile. Quante volte lo fissavo, lo spiavo, per coglierlo d’improvviso e scoprirlo muovere gli occhi, la testa, le mani. A volte mi mettevo le mani davanti agli occhi ma lasciavo una piccola fessura tra le dita per sorprendere un suo segno di vita. O addirittura volevo veder cadere una goccia di sangue dal suo cuore estroflesso.

Era bello quel Gesù, un viso dolce e splendente, lo confermo con gli occhi di oggi. Un Gesù raggiante, gioviale, perché mia madre non amava le immagini dolenti di Cristo in croce, temeva esporre crocifissi. Amava la luce, il sole che sorge e l’uomo che risorge, temeva che il dolore chiamasse il dolore, che la morte chiamasse la morte. Era un residuo superstizioso ma lei amava Gesù risorto, giovane e bello, che propizia la gioia e la nascita.

Ma poi uscendo di casa non vedi nulla che annunci la Pasqua e il suo dolente preambolo. Non c’è più pathos nell’incontro tra Cristo e la Madonna in piazza al Calvario; migliaia di persone assiepate, bambini sulle spalle dei genitori, spinte, battute e cellulari squittanti, assoluta anestesia del dolore e della fede … La stessa cosa accade coi Sepolcri, un pellegrinaggio di chiesa in chiesa tra migliaia di persone, con assoluta noncuranza dell’evento, come in uno struscio cittadino con un alibi religioso vago e vagante, un’obbligo rituale di socialità, un diversivo rispetto allo shopping. Una gita in casa propria, andante allegro. Che strano, mi ripetevo. Ricordo da bambino cos’era la settimana santa, non s’andava al cinema il giovedì e venerdì santo perché il film significava divertimento e invece questi erano giorni di lutto; e si vedevano donne vestite di nero piangere al passaggio di Cristo e della Madonna. Il dolore si leggeva nei volti di tanti nel pellegrinaggio dei Sepolcri e se un filo di gioia si intravedeva sotto l’aspetto dolente, era solo il presagio della Pasqua ventura, la certezza risorgente del Lieto Fine.

Che ne è della Pasqua antica di cui ho gloriosi ricordi, sicuramente condivisi da molti di voi? Che ne è della civettuola pasquetta, lunedì dell’angelo o con altri soprannomi locali (al mio paese è il lunedì del pantano)? È stupido fingere che il mondo non sia cambiato e che la stessa partecipazione possa ancora accompagnare i riti pasquali, le processioni e la passione di Cristo. L’atmosfera è fredda e svagata, quasi turistica, c’è qualcosa di stanco e di inautentico nelle cerimonie pasquali. Fiction. Forse c’è la stessa partecipazione quantitativa di pubblico, ma infinitamente più flebile è la partecipazione emotiva, religiosa, comunitaria. È una variante dello zapping televisivo, uno show dal vivo, in diretta, quasi una prosecuzione di quei programmi tv che ti fanno vedere l’Italia, il folclore e le tradizioni, un che di artificioso, di finto-tipico e di pseudo-etnico, un evento promosso dalla pro-loco. Dall’altra parte, mi pare altrettanto stupido ripetere che ormai il tempo è cambiato; l’Italia di un tempo è finita e oggi siamo tutti più o meno americani, cioè uomini nuovi alla conquista del pianeta uniformato. Forse la verità sta oltre questi due luoghi comuni: cerchiamo in modi nuovi, in forme nuove, le pasque che abbiamo perduto. E così la pasquetta si traveste di agriturismo, la resurrezione del corpo passa alla palestra o alla beauty farm, la voglia di tradizione e di origini si proietta nella ricerca dei luoghi incontaminati o dei borghi antichi, il gusto dei sapori di una volta si camuffa di passione per il cibo etnico, gli interminabili banchetti pasquali si traducono in slow food, e mille varianti spirituali, zodiacali, rituali compensano la perdita di senso religioso.

Mutano le forme, non i bisogni profondi. Restiamo animali ludici, simbolici, religiosi ma lo dissimuliamo. Qualcuno ricorderà che dopo la rivoluzione francese le processioni e i riti cristiani furono sostituiti fin nel calendario da riti nuovi, nomi nuovi, consacrazioni di astratte divinità. Poi quella febbre passò e al posto della DeaRagione tornò la Madonna e dall’Albero della Libertà si tornò a San Gennaro. Forse c’è un cartello invisibile appeso al portone della cattedrale: sono momentaneamente assente, lasciate un segno e sarete richiamati al più presto…Firmato con una Croce, ma non d’analfabeta.

IL TEMPO

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