“Serve un’indagine su Mediaset-Sky. Rischiamo un cartello delle tv”
Torniamo indietro di cinque giorni, all’intesa Sky-Mediaset, a Vivendi schiacciata in un angolo dal colpo grosso del piccolo schermo, proprio mentre la Tim è assediata dal fondo Elliott. Amos Genish, amministratore delegato dell’ex Telecom Italia, è l’uomo che dovrebbe avere qualche pensiero in più e invece ostenta la tranquillità delle grandi occasioni. «Non sono d’accordo con chi dice che l’intesa renderà più difficile la convergenza prevista dal nuovo nostro piano industriale», assicura. Al contrario, sospetta la possibilità di un cartello su cui ritiene vada fatta luce e immagina che questo possa aiutare la sua Tim Vision a mettere le mani sul calcio conquistato da Mediapro. «Io credo – assicura – che un interlocutore in più, per loro, possa fare la differenza».
Classe 1960, israeliano, pescato da Vincent Bolloré in Telefonica Brasil, Genish si presenta come un manager che vede più soluzioni che problemi. «Sono stato scelto da Vivendi, ma intendo essere “super partes” nell’interesse dell’azienda», concede. Poi giura di credere nella strategia che ha varato in marzo, documento che punta sullo scorporo della rete e sulla convergenza di video, musica e giochi su un’unica piattaforma. Se il consiglio non lo sostenesse, «non avrei molta scelta». Messaggio chiaro. Questa di Tim, è una partita in cui si gioca tutto.<
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Cosa cambia con il patto Mediaset-Sky?
«Nulla. La convergenza dei contenuti, unita alla connettività, costituisce un modello di business sostenibile che può aumentare i ricavi e la soddisfazione dei clienti. Detto ciò, non abbiamo molti dettagli sulla cooperazione Sky-Mediaset e aspettiamo di vedere come funzionerà. Credo che le autorità dovranno esaminare l’intesa attentamente per evitare che dia luogo a una concentrazione ancora maggiore rispetto all’esistente. Si deve anche accertare che tutti i protagonisti del mercato abbiano accesso agli stessi contenuti con le stesse condizioni».
Nessuna difficoltà nemmeno sul calcio?
«Il grosso della pay-tv gira intorno al pallone. Mediapro ha ora ancora più interesse a dialogare con Tim sui diritti del calcio, perché l’accordo di venerdì rende possibile un nuovo scenario, potenzialmente più concentrato. Ho sentito che sono stati sorpresi dal patto Sky-Mediaset, tanto è vero che hanno sospeso la pubblicazione della gara».
Quindi volete i gol su Tim Vision.
«Non abbiamo cambiato idea. Valutiamo come avere un po’ di calcio su Tim Vision, in funzione della capacità di coprire adeguatamente i costi e della nostra base-clienti. Continueremo a parlare con Mediapro. E l’interesse è mutuo».
Perché?
«Perché il mercato della pay-tv in Italia ha la minore penetrazione in Europa, 32% contro 60% e più. Penso sia colpa della concentrazione su uno-due player e del ritardo della fibra. Noi possiamo cavalcare il cambiamento».
Disney sta prendendo le news Sky. È una rivoluzione.
«Stanno ampliando il catalogo, avranno molto da offrire. Per noi sono un partner di peso. Come Netflix, sono già su Tim Vision. Per noi è un arricchimento».
Il debutto del gruppo Vivendi in Telecom non è stato tranquillo, soprattutto se considerato insieme con l’affare Premium di Mediaset. Sono stati fatti degli errori?
«Bisogna valutare Vivendi in Tim a partire dal 4 maggio 2017, il giorno in cui è stata nominata la maggioranza dei consiglieri. Poi sono arrivato io e il piano strategico di marzo. Questa è una fase in cui l’umore è giusto è un tempo positivo. Gli investitori hanno accolto molto bene la nostra strategia e ne siamo soddisfatti».
Tuttavia…
«Tuttavia è vero che Vivendi ha commesso degli errori. Avevano – e hanno – buone intenzioni, una visione industriale di lungo periodo e sono pronti a investire. Certo avrebbero dovuto comunicare meglio le loro intenzioni per scongiurare percezioni errate. Si poteva evitare la “golden power”, notificando le decisioni anche quando non lo si riteneva necessario, per creare un ambiente più favorevole. Si sono alimentati conflitti non necessari. È un peccato. Perché Vivendi è un partner a lungo termine per Tim. Ora hanno capito. Sono disposti a ricominciare daccapo».
In che modo?
«Un primo segnale si avrà il 9 aprile quando Vivendi presenterà la lista per il consiglio di amministrazione. Credo che sarà una squadra forte in cui il “presidente esecutivo” sarà solo “presidente” (Arnaud de Puyfontaine, ndr). Con lui, oltretutto, sono in perfetta sintonia».
Se in assemblea dovesse vincere il fondo Elliott?
«Non è un’ipotesi realistica. Abbiamo un buon piano strategico e gli investitori lo sanno: ne ho visti 120 nelle scorse settimane, chiedono continuità del management e prospettive di reddito. Per questo ritengo che Vivendi sia in grado di conservare un ruolo influente nel board. Il migliore risultato sarebbe quello di avere 10 consiglieri, con Elliott e le minoranze con cinque. Sarebbe un board ricco, di larghe vedute. Quello che serve a Tim».
Ma se lo scenario irrealistico diventasse realtà?
«Io credo nel nostro piano industriale e mi sento legato solo a questo. Non immagino altre idee di ingegneria finanziaria che possano servire a questa azienda nel lungo termine. Ho bisogno di un consiglio che lo sostenga con un consenso chiaro. In caso contrario, non avrei molta scelta. Eppure non credo succederà».
Deliberare la separazione della rete è stato importante. Che succede, adesso?
«L’attuale consiglio ha votato all’unanimità, autorizzando qualcosa che attendeva di essere fatto da anni. Agcom, Antitrust e governo hanno accolto la mossa favorevolmente. E non solo. Ci vorrà un anno per entrare nel vivo dell’operazione, dobbiamo definire la cornice regolamentare».
Chi deve comandare in Netco, la rete scorporata?
«Tim deve avere la maggioranza. Chiedete in giro: esperti e operatori vi diranno che, per una società come la nostra il controllo della rete è un requisito essenziale».
Sono in tanti a pensare che prima o poi la rete e Open Fiber convergeranno. E lei?
«Parliamo di dimensioni molto diverse. Noi abbiamo 4,6 miliardi di euro di ricavi, loro risultano aver fatto 90 milioni nel 2017. Non sarebbe mai una fusione fra pari, sebbene abbia pieno rispetto per Of, una iniziativa molto interessante con alle spalle azionisti di rilievo. Non siamo in teoria contrari a un “merger”, a patto però che condizioni e valutazioni siano tali da creare valore. Non se n’è mai parlato; non è sul tavolo; Enel e Cdp hanno detto più volte di non essere interessati. In altre parole: non c’è nulla».
Ha notato una diffusa diffidenza nei confronti dei francesi quando investono in Italia?
«Non sono francese! (ride)».
Però l’ha scelta Vivendi.
«Non rappresento Vivendi. Come “ceo” devo essere un equo intermediario – un “honest broker” – fra azionisti. Sono loro a decidere strategie e assetti per il bene di tutti».
Che farete di Sparkle?
«Non è strategica, ma è dura da vendere per le comprensibili limitazioni a tutela della sicurezza. Non ci sono tanti acquirenti possibili. Ne abbiamo visti due, senza esito».
Come immagina i rapporti di Tim col governo che verrà?
«Siamo un gruppo da 4 miliardi di investimenti e 50 mila dipendenti in Italia. È nostro interesse intenderci con ogni governo e, oltretutto, credo che qualunque governo non possa che sostenere la separazione della rete che crea più neutralità. Lo ripeto: sono ottimista».
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