Di Maio scommette su un pezzo di Fi. “Da lì verranno i nuovi responsabili”

ilario lombardo
roma

Era da tempo che un’assemblea congiunta del M5S non durava così tanto. Quasi tre ore di discussione ininterrotta. Martedì sera Luigi Di Maio era seduto nell’aula dei gruppi alla Camera, di fronte a una folla di parlamentari ansiosi di conoscere dove il leader li stia portando, mentre sullo sfondo la sagoma di Silvio Berlusconi agita i sogni di governo.

 I più spaventati dall’idea che l’asse con la Lega possa ampliarsi anche all’ex Cavaliere sono i veneti, scottati dallo scandalo politico-affaristico delle banche locali, e i campani, quelli che tifavano per la leadership di Roberto Fico, come Paola Nugnes.

A parlare però è anche Nicola Morra, il primo a mettere in discussione il valzer d’amore con Matteo Salvini. Molti deputati e senatori confessano di essere entrati nel M5S proprio contro Berlusconi e chiedono rassicurazioni a Di Maio. Il capo politico le concede. Ma insiste più su Berlusconi che su Forza Italia, una differenza che qualcuno nota, qualcun altro no. Tutto potrebbe ancora succedere ma intanto, armarsi di difese contro l’ex Cavaliere, come lasciare per inerzia la porta aperta al Pd, serve a uso interno, contro le critiche che cominciano a piovere pesanti. Come quella di Aldo Giannuli, storico, amico di Gianroberto Casaleggio che sezionò a puntate sul blog la legge elettorale e contrario all’intesa con la Lega: ieri ha annunciato l’addio ai grillini, «perché il potere li ha cambiati» e perché «il M5S sta imboccando una strada decisamente di destra».

Oggi, di fronte a Sergio Mattarella, Di Maio dirà di «no a governi istituzionali o tecnici», e no a un premier che non sia stato battezzato dal consenso popolare. Poi, dirà che è pronto a fare un governo «sui temi» con «un contratto alla tedesca». Non dirà invece ciò che i tifosi di un governo con il Pd sperano: che non farà accordi con il centrodestra. Nella testa di Di Maio lo schema perfetto sarebbe quello in cui la Lega si stacca da Fi per aderire a un «governo del cambiamento».Avrebbe un doppio vantaggio: preserverebbe la purezza simbolica dell’anti-berlusconismo, ma soprattutto ridurrebbe la forza contrattuale di Salvini, che a quel punto non sarebbe più il leader di una coalizione del 37%, ma di un partito sotto il 20%, alleato di un esecutivo a trazione a grillina. Di Maio però non è ingenuo e ha capito dalla diretta voce di Salvini che il leghista non può rinunciare alla conquista del centrodestra, rompendo di netto con Fi. Non così, non ora. Ed è per questo che il leader del M5S e i suoi si stanno convincendo di quello che un deputato, sotto la rigida garanzia dell’anonimato, spiega così: «I nostri senatori parlano con i colleghi leghisti e di Fi. Sono sicuri che qualcuno per fare una maggioranza si troverà». Scommettono, insomma, su un’implosione di Fi, su una pattuglia di nuovi «responsabili» pronta ad attaccarsi al carro di Salvini al momento opportuno. Quando? Quando le trattative diverranno frustranti, senza un’apparente via d’uscita che non sia il voto. Qualcuno nella Lega la chiama una «scissione controllata», insinuando il sospetto che una pattuglia potrebbe staccarsi con il beneplacito di Berlusconi.

Quel che è certo è che Fi è in sommovimento. La fronda del Nord, guidata da Giovanni Toti, spinge per il partito unico del centrodestra. Una soluzione che rafforzerebbe Salvini, permetterebbe un’operazione di «make up» per nascondere Berlusconi e renderebbe l’intesa più digeribile per i grillini, magari in cambio della premiership a Di Maio e di ministeri d’area a Fi. In fondo tra i 5 Stelle già si parla di spartizione di dicasteri, visto che dal M5S filtra l’indiscrezione che alla Difesa dovrebbe andare Guido Crosetto, di Fdi. E anche le nomine dell’azzurra Maria Elisabetta Casellati al Senato o del grillino Vito Crimi alla commissione speciale sono segnali che indicano una rotta rischiosa ma possibile. È vero che Berlusconi ha chiesto ai leghisti di reagire con più durezza dopo il pallido comunicato di Salvini contro i veti di Di Maio, e Giancarlo Giorgetti lo ha fatto, agitando lo spettro del voto. Ma è anche vero che il grillino ha risposto con un sondaggio di Demopolis che dà il M5S al 35% e la coalizione di destra inchiodata al 37%.

LA STAMPA

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