Le baruffe senza fine in casa Pd
Sarà un’esperienza singolare stamattina per il capo dello Stato ascoltare i due più importanti dirigenti del Pd (il «reggente» Maurizio Martina e il capo dei senatori dem Andrea Marcucci) i quali — se saranno fedeli a quel che hanno detto nei giorni scorsi — gli ripeteranno, il primo, di considerare una iattura un eventuale governo M5S-Lega e, il secondo, di «non vedere l’ora» che venga il giorno del giuramento di Luigi Di Maio con Matteo Salvini. Manifestate le proprie diversità d’auspicio sul governo degli altri, la delegazione del Pd, invece di indicare i propri orizzonti, chiederà lumi all’uomo del Quirinale. Dividendosi, nel suo piccolo, tra chi spera di essere coinvolto in qualche combinazione governativa e chi invece di tale prospettiva non vuole neanche sentir parlare. Poi — dopo essere stati, per così dire, consultati — i componenti della delegazione uscendo, daranno ognuno la propria versione del colloquio con Sergio Mattarella, inclusi i silenzi, i sorrisi, gli sguardi di intesa e le espressioni di disappunto. Sicché il loro partito riprenderà ad accapigliarsi proprio sull’interpretazione di silenzi, sorrisi, sguardi ed espressioni. Il tutto rimbalzerà quasi in tempo reale su twitter e la sera stessa in qualche dibattito televisivo. Forse — se saremo fortunati — già il pomeriggio.
Più resistente e puntuale di qualsiasi altra sitcom, da una trentina d’anni va in onda su tutte le reti della nostra tv, a qualsiasi ora del giorno e della notte, «Le baruffe piddine». Il serial fece in tempo, sul finire degli anni Ottanta, a sintonizzarsi con l’ultima stagione del Pci; poi ha mutato parte del nome ogni volta che è cambiata la denominazione del principale partito della sinistra italiana. Ma il copione è sempre rimasto su per giù lo stesso: discussioni ai confini del surreale tra attori (per giunta non pagati) che si accapigliano su cose spesso senza senso. In questi giorni vengono trasmesse puntate sempre più frequenti che conquistano considerevoli picchi di audience sul litigio tra dirigenti del Pd che auspicano un’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle e altri che la contrastano. Protagonista di questi battibecchi, anche quando non è di scena, Matteo Renzi che, dopo aver solennemente annunciato il proprio ritiro (provvisorio, per due anni) torna sul palcoscenico pressoché quotidianamente per guidare i «suoi» deputati e senatori alla resistenza antigrillina. Renzi evidentemente non ha fiducia nella lealtà dei propri seguaci, altrimenti se ne starebbe davvero per qualche mese in disparte. E non conosce il senso preciso della parola «dimissioni» che, una volta pronunciata, richiederebbe una congrua assenza dal proscenio (o almeno questo è il significato che le dà un comune mortale). Ovvio che da senatore l’ex (?) segretario dovrebbe recarsi a Palazzo Madama quando c’è da pronunciarsi con un voto. Ma per il resto dovrebbe sparire, quantomeno starsene in silenzio e smentire, quasi con maniacalità, ogni frase o intenzione che gli viene attribuita. I grandi, ma anche i piccoli, della Prima Repubblica quando si dimettevano rimanevano per un lasso di tempo nell’oscurità e tornavano alla luce solo dopo qualche mese o anno. Amintore Fanfani adottò più volte questa tattica, anzi ne abusò, sicché alla terza o quarta riapparizione, si conquistò il soprannome (affibbiatogli da Indro Montanelli) di «rieccolo». Ma l’ex segretario del Pd a ogni evidenza ha paura del buio, per lui il massimo di allontanamento dalle luci della ribalta politica è di qualche ora. Lasciando (ed evidentemente gradendo) che su di lui circolino leggende da cui è descritto come un indefesso orditore di trame, tuttora regista occulto del partito di cui fu segretario. Contento lui…
Sul versante opposto, quello a lui ostile di Andrea Orlando, Dario Franceschini, l’auspicio — ammesso che così vada inteso — di un’apertura al movimento di Di Maio appare vago, sfuggente, allusivo. Tutto è ammantato da criptici riferimenti all’alto magistero del presidente della Repubblica. Come se il Pd, il secondo partito nel voto degli elettori, avesse come unica prospettiva quella di un coinvolgimento d’emergenza nell’area di governo sotto la guida, appunto, di Sergio Mattarella. Non c’è neppure — eccezion fatta, diamogliene atto, per Michele Emiliano — un pronunciamento chiaro a favore del dialogo con i Cinque Stelle. Forse perché la prospettiva di un governo nato da tale dialogo farebbe a pugni con l’aritmetica (al Senato M5S e Pd — includendo i renziani al gran completo — avrebbero la maggioranza per un solo voto) e perché gli stessi grillini — a meno di non prendere per buona l’ultima offerta di Di Maio — non hanno dato neanche un segnale di apertura in questa direzione. Anzi ne hanno dati più d’uno in direzione opposta.
Dopodiché, come ha osservato Michele Salvati, l’unico effetto di tale invocazione distensiva sarà quello di far credere al proprio elettorato che sia davvero esistita l’opzione di un governo Pd e M5S; sicché quando di governo ne nascerà — se mai nascerà — uno di segno grillin leghista, il popolo della sinistra dovrà caricarsi il peso del senso di colpa per gli attuali dirigenti, «postrenziani» ma non ancora «derenzizzati», che, con i loro dinieghi, ne hanno favorito la nascita.
Ad accrescere il caos, nelle retrovie si sta sviluppando, tra gli artisti d’area, un misterioso fenomeno di crescente apprezzamento per le virtù politiche di Matteo Salvini. Attori molto apprezzati come Antonio Albanese, Claudio Amendola, Margherita Buy — pur non rinnegando la propria appartenenza alla sinistra — hanno ritenuto di uscire allo scoperto con parole di ammirazione nei confronti del leader leghista. A un tempo, però, un loro collega, Ivano Marescotti approdato — nel nome, a suo dire, della tradizione comunista — ai lidi pentastellati, ha annunciato che, se Di Maio si alleerà con Salvini, lui andrà «in piazza con i forconi». Grande è il disordine sotto il cielo. Grande e preoccupante dal momento che il Pd — così come gli altri partiti — nei prossimi due mesi dovrà cimentarsi con prove elettorali in quattro Regioni: Molise (22 aprile), Friuli-Venezia Giulia (29 aprile), Valle d’Aosta (20 maggio), Trentino-Alto Adige (27 maggio). E, se non bastasse, il 10 giugno andranno al voto altri sette milioni di elettori per scegliere ben 767 sindaci. Di questi 21 in capoluoghi di provincia, 17 dei quali attualmente amministrati da giunte di centrosinistra. In più, quello stesso 10 giugno, si voterà in alcuni municipi: a Roma, ad esempio, in due, Montesacro-Salaria e Garbatella-Ardeatina, dove il confronto tra Pd e M5S non dovrebbe essere perso in partenza: nel Lazio — in cui si è votato il 4 marzo scorso in contemporanea con le politiche — ha vinto Nicola Zingaretti e la lista Pd ha ottenuto diecimila voti in più di quella dei Cinque Stelle (260 mila contro 250 mila). Ovvio che converrebbe affrontare una prova del genere mostrandosi compatti e disposti alla battaglia contro gli avversari. Ma i dirigenti del Pd e più in generale dell’intera sinistra ormai sembrano capaci di combattere solo tra di loro.
La sitcom di cui si è detto all’inizio si conclude a ogni puntata con un attore, ogni volta diverso, che si alza all’improvviso ed esorta i dirigenti della sinistra a «tornare tra la gente». In quel momento si scatena regolarmente un uragano di applausi. Qualche ora dopo, al massimo il giorno successivo, si ricomincia con il copione di sempre. C’è solo da augurarsi — per chi ha a cuore i destini della sinistra — che quei piccoli e grandi leader, i quali, in omaggio al suggerimento di cui si è detto, saranno andati a rigenerarsi «tra la gente», quando faranno ritorno, ritrovino quantomeno le mura di casa.
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