La scacchiera dei leader: mosse e contromosse in per il nuovo governo

Andrea Carugati, alberto mattioli, amedeo la mattina, fabio martini
 

Di Maio tiene aperti i due forni senza cedere sulla premiership

La spregiudicatezza con cui il leader del M5S ha offerto un patto di governo «alla tedesca» indistintamente a Lega e Pd (buona prova di realismo per una forza ormai non più antisistema), rischia di diventare un boomerang. Sul fronte del centrodestra, infatti, la richiesta a Salvini di disfarsi di Berlusconi appare sin troppo esplicita per poter produrre risultati. Sul fronte dem, nonostante il tentativo di dialogo si stia facendo sempre più serio, le possibilità di successo appaiono ancora minori. Non solo per il fermo no dell’ex segretario Renzi, ma perché anche la parte più dialogante del Pd (Martina, Orlando e Franceschini) in questa fase non trova appigli per poter sedere al tavolo. E le parole di Danilo Toninelli sul «fallimento» dei governi Pd non aiutano.

Tuttavia, dopo il ricompattamento tra Salvini e Berlusconi e la decisione di salire insieme al Colle, Di Maio ha deciso di lanciare una offensiva più seria verso il Pd. Fin dove si spingerà? Dentro il M5S si comincia a ipotizzare anche un passo indietro del capo politico a favore di una figura terza scelta da Mattarella e non sgradita al Pd per Palazzo Chigi. Per sapere se questo corteggiamento ai dem sarà più di una parentesi bisogna aspettare l’incontro tra Di Maio e Salvini tra il 10 e l’11 aprile. Lì si capirà se il feeling con l’altro Matteo è definitivamente chiuso (ieri il barometro dava tempesta). E se Di Maio, tra i due storici nemici, deciderà di «ingoiare» Renzi (e un passo indietro da premier) pur di evitare l’abbraccio mortale con Berlusconi.

 

Salvini in versione democristiano. il ritorno al voto non lo spaventa

Il post-elezioni consegna alla pubblica opinione un Matteo Salvini inedito: moderato, mediatore, decantatore. Quasi democristiano. Il leader leghista sa di avere bisogno di tempo e di pazienza per convincere Berlusconi a trattare con Di Maio e Di Maio a trattare con Berlusconi. È convinto che non gli convenga rompere la coalizione di centrodestra e fare da solo con i grillini un governo nel quale la Lega sarebbe fatalmente il socio di minoranza. Il percorso è stretto e difficile. Ma Matteo ha diversi elementi a suo favore. Da un lato, spera che Berlusconi venga a miti consigli: per Silvio un governo con Di Maio è sgradevole, ma entrambe le alternative, un governo M5S-Pd o le elezioni, sono peggiori. Dall’altro, Salvini è convinto che la politica dei due forni di Di Maio sia più una minaccia che un’effettiva possibilità. Intanto perché i renziani, dentro il Pd, per ora tengono duro sulla scelta dell’opposizione. E poi perché sa che per la base grillina sarebbe senz’altro più accettabile un governo con la Lega (con Fi, magari, un po’ meno) che con il Pd.

Altro punto di forza: la Lega non teme l’extrema ratio di ritorno alle urne, che si concluderebbe con un ulteriore travaso di voti da Fi al Carroccio. Per questi motivi il segretario, che in ogni caso sta dimostrando, a differenza di quel che pensavano in molti, di saper anche fare politica e non solo propaganda, è ancora moderatamente fiducioso. «Cauto ottimismo», insomma. Anche questo suona molto diccì.

 

Berlusconi e l’incubo delle urne che lo farebbero finire ai margini

Silvio Berlusconi è combattuto. Il suo dilemma è se fidarsi di Matteo Salvini fino in fondo o mettere in conto che l’alleato leghista, a un certo punto, lo molli per convolare a nozze con Luigi Di Maio. Dentro Forza Italia convivono queste due tendenze e l’ex Cavaliere un giorno ascolta chi sponsorizza la prima tesi, il giorno dopo quella opposta. E allora lui, nell’arte di farsi concavo e convesso, va avanti a zig zag, convinto però di avere un punto di forza: Salvini da solo vale il 17%; rappresentando invece tutto il centrodestra può far valere il 37% del centrodestra. Il punto debole di Berlusconi è la voragine del ritorno alle urne che potrebbe aprirsi se nessuno riuscirà a risolvere il rompicapo di trovare una maggioranza e formare un governo.

Il leader azzurro ha davanti tre strade. La prima, molto difficile, è quella di una coalizione composta da 5 Stelle e tutto il centrodestra. La seconda è che i pentastellati trovino un’intesa con il Pd, e questa strada sarebbe un disastro per l’ex Cavaliere relegato all’opposizione. La peggiore di tutte, come dicevamo, sono le elezioni nelle quali potrebbe ritrovarsi un partito sotto il 10%. Con il risultato di essere fagocitato dalla Lega. Berlusconi sente tanti scricchiolii in Forza Italia. Si rende conto che il protagonismo di Salvini lo sta mettendo all’angolo sempre di più. Nonostante Matteo lo rassicuri che non intende scalare Forza Italia. Ma l’ex premier non si fida. La sua unica sicurezza è di tentare di rimanere in partita. Con qualunque governo che verrà. Se verrà.

 

Martina non cederà ai grillini ma così rischia l’irrilevanza

Non ha ancora 40 anni, gli piacerebbe diventare il prossimo segretario del Pd e nelle prossime ore avrebbe l’occasione per sparigliare, andando a vedere il gioco dei Cinque Stelle. Ma non lo farà. Il reggente Maurizio Martina è leader a sovranità limitata, sa bene che i notabili del suo partito – divisi su tutto – sono uniti dal “minimo comun denominatore” del no ai Cinque stelle. Per non urtare nessuno dei suoi potenziali grandi elettori, ma anche per scongiurare uno spappolamento del Pd, Martina in queste ore si è affrettato a oscurare tutti gli spiragli che via via si aprivano dal cielo pentastellato. E continuerà a farlo. Poi, se dovesse suonare la campanella del «governo di tutti», forse se ne riparlerà, ma per ora tutti fermi.

Una strategia, quella di Martina e dei suoi notabili che ha un punto di forza che è anche un punto di debolezza. Tirandosi fuori da ogni responsabilità di governo, si scommette sul fallimento altrui e sulla propria rinascita, da coltivare al riparo dai marosi della responsabilità di governo. Ma la rinuncia del Pd a fare proposte di governo è qualcosa che sconfina nell’irrilevanza. Anche se dicono il contrario, Martina & company lo sanno bene: gli elettori che hanno votato Pd, lo hanno fatto sperando che il loro partito continuasse a governare. Certo, altri partiti hanno preso più voti, ma la totale rinuncia del Pd a rivendicare una propria idea di governo del Paese è una pagina bianca che resterà in carico al reggente ma soprattutto ai notabili che lo hanno imbrigliato.

LA STAMPA

 

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